Articoli di Psicologia e Psicoterapia
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A chi non è mai capitato di arrabbiarsi? Spesso la rabbia viene considerata un’emozione negativa da reprimere, inopportuna, irragionevole e associata all’aggressività. La realtà è che la sua carica distruttiva dipende dall’uso che se ne fa, o meglio, che non se ne fa.
La rabbia diventa dannosa quando non viene riconosciuta, quando si tenta di negarla. La rabbia repressa infatti può alimentare sentimenti depressivi e di inferiorità e il nostro corpo può darci segnali di sofferenza attraverso manifestazioni psicosomatiche come psoriasi, gastriti, mal di testa.
A cosa serve la rabbia?
La rabbia è un importante “segnale di allarme”, ci comunica che qualcosa non va e ci predispone ad agire in senso protettivo per noi stessi. La rabbia può segnalarci che i nostri diritti sono stati violati, che i nostri bisogni non sono appagati, ci segnala che ci sentiamo insoddisfatti o frustrati. Ascoltare la propria rabbia ci aiuta quindi ad essere autentici con noi stessi e con gli altri.
Come esprimere la rabbia in modo costruttivo?
Non tutte le modalità sono adeguate. Riabilitare la rabbia non significa certo urlare o essere aggressivi. Dietro la rabbia si cela sempre un dolore o una insoddisfazione e agire in modo aggressivo certamente è un modo per disperdere la propria energia ed evitare di sentire il dolore sottostante. Affinché i nostri sentimenti siano ascoltati è necessario, sempre e in ogni occasione, esprimere con calma e a parole il proprio stato d'animo.
Prenditi una pausa e parla con un amico. Spesso è indispensabile allontanarsi dalla situazione che ha innescato la rabbia e rimandare la comunicazione: “in questo momento sono molto arrabbiato e non sono in grado di parlare costruttivamente con te, ne parliamo quando sarò più calmo”. Inoltre, scaricare il primo moto di collera con un amico può aiutarci ad adottare successivamente un approccio disteso nella conversazione e acquisire eventualmente, grazie al confronto, un nuovo punto di vista.
Chiarisciti le idee. È importante avere chiaro ciò che si prova e cosa si ha intenzione di comunicare all’altro, ponendosi degli interrogativi, ad esempio:
- “Cosa mi ha fatto arrabbiare?”
- “Quanta responsabilità ho rispetto a quanto è accaduto?”
- “Come può essersi sentita l’altra persona?”
Comunica le tue opinioni. È utile adottare uno stile assertivo di comunicazione evitando accuse e ingiurie, in quanto l’obiettivo è quello di ristabilire un equilibrio e non di prevaricare l’altro. Lo psicoterapeuta T. Gordon propone il sistema dei messaggi-io basato sulle seguenti linee guida:
- definire con precisione cosa ci ha disturbato: “ieri quando eravamo a cena con gli amici, hai detto che… con un tono… e io mi sono sentito molto arrabbiato”
- condividere le proprie emozioni: “quando capita che… io mi sento…”
- esprimere i propri bisogni attuali e le proprie motivazioni: “vorrei che... ho bisogno di… perché per me è molto importante…”
- comunicare le proprie aspettative: “mi piacerebbe se tu… e io cercherò di…”
Vivi profondamente la tua rabbia. Se siamo in un luogo sicuro, da soli, con un amico o con un terapeuta, permettiamoci di parlare ad alta voce, di urlare, di scalciare e colpire cuscini. In tal modo si affievolisce l'istinto di compiere un atto aggressivo e saremo più capaci di affrontare efficacemente le situazioni che si presentano. Un altro modo per esprimere la propria collera è ricorrere all’esercizio fisico e ad esercizi di rilassamento.
Chiedi aiuto se necessario. Imparare a gestire la rabbia è una sfida per chiunque, ci sono dei momenti della propria vita in cui la rabbia diventa incontenibile ed in questi casi è importante considerare la possibilità di consultare uno psicoterapeuta.
Come gestire la rabbia quando l'altro è arrabbiato?
Uno degli strumenti più validi si chiama active listening, ossia ascolto attivo, che può essere sintetizzato in tre momenti:
- Primo: porre domande chiarificatrici all’interlocutore, domande che dovrebbero essere sempre aperte, generiche e rivolte ad indagare le motivazioni: “cosa ti ha fatto arrabbiare?”, “come mai per te è così importante…?”. Vanno sicuramente evitate affermazioni del tipo: “non è il caso di prendersela per così poco!”, a meno che non vogliate vedere la rabbia trasformarsi in aggressione
- Secondo: riassumere le affermazioni dell’interlocutore in modo da costruire un dialogo con l’altro in relazione all’episodio: “da ciò che racconti, mi sembra di capire che…
- Terzo: cogliere e rimandare le emozioni che l’altro ci esprime, ossia avere empatia nell’ascolto e nella comunicazione: “capisco come tu ti possa sentire (frustrato) quando…”
La rabbia è semplicemente un’emozione come la tristezza, la gioia, la paura e tutte le emozioni non sono altro che impulsi ad agire, piani di azione di cui ci ha dotati l’evoluzione per gestire al meglio la nostra vita.
È vero che mangiare cioccolata genera benessere?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaIl cioccolato è uno degli alimenti più consumati in tutto il mondo e viene definito il “cibo del buon umore”, ma vero che mangiare cioccolata genera benessere? I risultati degli studi sono controversi.
Mangiare cioccolata stimola la produzione di serotonina e di endorfine capaci di produrre un effetto di innalzamento del tono dell’umore. Il cacao contiene monoammine, tra cui la feniletilammina che è capace di produrre le stesse sensazioni che sperimenta una persona innamorata. Il consumo di cioccolato può offrire dunque sensazioni di rilassamento e di felicità (Università di Helsinki, in Finlandia).
Il cacao è anche uno stimolante naturale, può provocare un incremento dell’attenzione, dello stato di allerta e del rendimento mentale. Gli studenti che bevono una tazza di cioccolato risultano più efficienti intellettualmente di quelli che non lo bevono (Università di Wheeling in West Virginia). Il cacao, inoltre, ha effetti antiossidanti, di prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcune forme di cancro (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione).
Una cosa è certa: consumare cioccolata procura piacere e si associa all’attivazione di molte funzioni psicologiche. Il piacere della cioccolata può quindi generare benessere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli (Lorenzini, Scarinci, 2013).
Gli studi condotti fino ad oggi indicano che l’assunzione quotidiana di 50 grammi di cioccolato fondente per 3 giorni riduce i sintomi dello stress, dell’ansia e della depressione. In generale, il consiglio più diffuso sembra essere quello di non farsene mancare circa 28 grammi al giorno.
Tuttavia, altre ricerche attestano risultati esattamente contrari: il cioccolato potrebbe essere una concausa importante di infelicità, sbalzi d’umore e depressione. Il consumo di cioccolato può dare dipendenza, in quanto può essere consumato per appagare il proprio vuoto affettivo, per noia, per appagare un desiderio in modo rapido e compulsivo; può condurre all’obesità, alla perdita di controllo sui propri impulsi e addirittura alla perdita di autostima (Associazione Dietetica e della Nutrizione Britannica).
Infine, una ricerca australiana (pubblicata su Journal of Affective Disorders) esclude l’effetto benefico della cioccolata sull’umore: “La cioccolata può fornire un piacere emotivo, soddisfacendo un desiderio, ma quando viene consumata per avere un conforto o per vincere il malumore, è più probabile che sia associata a un prolungamento dello stato d’animo negativo, piuttosto che alla sua fine”.
Che conclusioni trarne?
Il cioccolato, come tanti altri alimenti o sostanze, ci mostra i suoi effetti positivi ma anche i suoi lati negativi: può dare piacere, calore, appagare, ma può anche indurre l'aumento di peso, rendere dipendenti e influire negativamente. Certamente è importante distinguere tra il cacao puro e il cioccolato ricco di grassi, zuccheri e calorie.
Ippocrate sosteneva che “è la dose che fa il veleno”. Consumare cioccolato dovrebbe essere un momento di piacere e non un modo per tentare di controllare o sfogare le proprie emozioni. Evitate quindi di assumere cioccolata quando vi sentite in ansia, tristi o stressati e cercate invece di rimanere in ascolto delle vostre emozioni e dei vostri bisogni e di mangiare del buon cioccolato fondente con moderazione.
Genitori quali sono i segnali di disagio degli adolescenti ai quali prestare attenzione?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaL’adolescenza è la fase della vita durante la quale l’individuo conquista le abilità e le competenze necessarie ad assumersi le responsabilità relative al futuro stato di adulto. Questo periodo di transizione dallo stato di bambino a quello di giovane adulto prevede una costante evoluzione e continue trasformazioni che spesso, dall’esterno, vengono scambiate per volubilità, instabilità, squilibrio e il genitore può trovarsi a percepire il proprio figlio come una persona improvvisamente diversa e “nuova”. Ma quando i rapidi e consistenti cambiamenti causano veramente una fase di disequilibrio che si può protrarre nel tempo? Quali sono i segnali di disagio più frequenti ai quali dover fare attenzione? Le manifestazioni del disagio del ragazzo o della ragazza possono essere rilevati attraverso una serie di segnali dei quali di seguito elenco alcuni dei più frequenti. Ci tengo a sottolineare che non si parla di diagnosi ma di segnali di stati di sofferenza, il cui senso e la cui rilevanza o meno vanno valutati caso per caso:
- rabbia e aggressività (mi arrabbio con estrema facilità, perdo il controllo, odio tutti)
- isolamento rispetto al gruppo dei coetanei (non ho voglia di vedere nessuno, non me la sento di uscire di casa)
- disagio nelle relazioni con i coetanei (non riesco a parlare con gli altri, gli altri, nessuno mi ascolta, non riesco a farmi degli amici)
- difficoltà ad affermare la propria personalità, crisi di identità (chi sono? non mi riconosco più?)
- problemi scolastici (non mi importa niente della scuola, non riesco a dimostrare che sono capace, non sono intelligente)
- disfunzioni nell'alimentazione (non ho fame, il cibo mi ripugna, oppure ho sempre fame, ci sono momenti in cui non riesco a smettere di mangiare, vomito quello che ho mangiato)
- disagio rispetto al proprio corpo (non mi piaccio, sono cambiato e non mi piace come sono adesso)
- dubbi sulla propria identità sessuale (non so se mi piacciono le ragazze o i ragazzi, ho il timore di essere gay, ho il timore di essere lesbica)
- conflittualità con i genitori (non riescono a capirmi, mi trattano come se fossi un bambino, invadono i miei spazi, non li sopporto più)
- angosce e paure (ho paura di stare da solo, in certe situazioni mi blocco, ho paura di quello che gli altri pensano di me)
- ossessioni (ho dei pensieri che mi disturbano e che non riesco a controllare, mi lavo le mani in continuazione, accendo e spengo la luce senza motivo...)
- autolesionismo manifestato attraverso pensieri o veri e propri comportamenti (ho pensato di suicidarmi, penso di farmi del male, mi taglio, faccio cose pericolose, bevo)
- somatizzazioni cioè malessere fisico per cui è stata verificata l'assenza di una causa organica (mi viene spesso mal di testa, mi va a fuoco lo stomaco, ho la pelle sempre irritata)
- sofferenze sentimentali (nessuno mi vuole, chi potrebbe amarmi così come sono)
- difficoltà a riconoscere con chiarezza i propri obiettivi di vita (non so in che direzione andare, non so cosa voglio).
Ognuno di noi guarda la vita e il futuro in un modo diverso. Alcuni di noi vivono con preoccupazione ed ansia, focalizzano la propria attenzione sulle difficoltà incontrate o da affrontare, piuttosto che sulle gioie e i successi ottenuti; queste persone sono i cosiddetti pessimisti. Altri invece tendono a valutare la vita con serenità ed entusiasmo, considerano le difficoltà come opportunità di crescita, più che come insidie e ostacoli insormontabili; questi ultimi sono gli ottimisti.
In generale possiamo affermare che:
- l’ottimismo è l’attitudine a giudicare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà e della vita
- il pessimismo è l’atteggiamento costante e sistematico di sfiducia nei confronti della realtà e della vita
Gli effetti negativi del pessimismo e delle emozioni correlate (rabbia, ansia, depressione…) sulla nostra salute sono facilmente riconoscibili, ma se è vero che uno stato cronico di sofferenza psicologica è tossico per il nostro organismo e la nostra mente, è anche vero che le emozioni opposte possono avere un effetto tonificante. Con questo non voglio affermare che l’ottimismo e le emozioni positive (la gioia, l’entusiasmo, la curiosità…) o una semplice risata cambierà il decorso della nostra giornata.
Diversi studi hanno messo in luce che i pessimisti più facilmente si arrendono di fronte alle difficoltà, hanno meno successo nel lavoro, cadono più spesso in depressione e si ammalano più facilmente. Al contrario le persone ottimiste rendono meglio nello studio, nel lavoro e nello sport. Inoltre sembra che gli ottimisti siano più abili nei test attitudinali e tendano ad essere scelti più spesso dei pessimisti quando concorrono a cariche dirigenziali. Infine si è rilevato che le persone ottimiste godano di uno stato di salute buono: infatti sembra che il loro sistema immunitario sia più efficiente e risentono meno dei consueti malanni fisici.
In uno studio (Goleman, 2011) venne valutato il livello di ottimismo o pessimismo di 122 uomini sopravvissuti ad un attacco di cuore. Otto anni dopo dei 25 uomini più pessimisti, 21 erano morti; dei 25 più ottimisti ne erano morti solo 6. La loro predisposizione mentale fu rivelatrice della loro possibilità di sopravvivenza più di qualunque altro fattore di rischio medico.
Ma perché alcune persone sono ottimiste e altre sono pessimiste? I pessimisti possono diventare ottimisti?
Per rispondere a queste domande farò riferimento agli studi di Martin Seligman (1996) che è un autorevole studioso del settore.
Seligman sostiene che alla base dell’ottimismo e del pessimismo ci sono due elementi:
- la sensazione di poter esercitare o meno un controllo sugli eventi
- il modo con cui ci spieghiamo ciò che ci accade
Le persone che si vivono come impotenti saranno, con maggiore probabilità, più pessimiste delle persone che, al contrario, credono di poter modificare circostanze ed eventi così da raggiungere obiettivi e successi desiderati.
Tuttavia la percezione di sentirsi impotenti o meno, cioè capaci di controllare ciò che ci accade o meno, si costruisce sulla base di come ciascuno si spiega gli eventi negativi o positivi con cui ha a che fare nella vita.
Seligman ritiene che ciascuna persona abbia un proprio stile esplicativo, cioè una propria modalità di interpretare le cause degli eventi: tale modalità si origina dalla visione che ciascuno ha del proprio posto nel mondo, dal percepirsi come persona degna di valore e meritevole oppure indegna e immeritevole. Nel primo caso avremo facilmente a che fare con una persona ottimista, nel secondo con una pessimista.
Nello specifico lo stile esplicativo è caratterizzato da tre dimensioni cruciali:
- la permanenza: riguarda il tempo e il modo in cui ci spieghiamo gli eventi, le persone pessimiste credono che le cause dei propri successi o fallimenti perdurano nel tempo e non sono modificabili
- la pervasività: riguarda invece lo spazio, alcune persone riescono a mettere da parte i loro problemi e ad andare avanti anche quando vivono un dolore in un campo importante della loro vita, altre persone invece tendono a mandare tutto in rovina
- la personalizzazione: riguarda l’attribuzione causale degli eventi, ossia siamo noi stessi o i fattori esterni che causano gli eventi? Gli ottimisti tendono ad interpretare gli insuccessi come occasionali e circoscritti ed interpretano i successi come conseguenza delle loro qualità, i pessimisti fanno esattamente l'opposto
Possiamo quindi affermare che ottimisti o pessimisti non si nasce, ma lo si diventa. Secondo Seligman, l'ottimismo può essere appreso e, con sollievo di tutti i pessimisti, anch'essi possono sperare di diventare un giorno ottimisti, ma solo dopo aver imparato una serie di abilità, come il modo soggettivo di interpretare gli eventi, l’ottimismo quindi si può apprendere con l’esercizio e la flessibilità di pensiero.
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L’ottimismo è l’attitudine a giudicare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà e della vita. Il pessimismo è l’atteggiamento costante e sistematico di sfiducia nei confronti della realtà e della vita.
Non esiste una risposta oggettiva a questa domanda.
Rivolgersi ad uno psicoterapeuta significa dare ascolto ad un’esigenza importante ed intima, che comporta due passi fondamentali: il primo passo è prendere coscienza del proprio stato di malessere e il secondo passo consiste nell'assecondare il desiderio di stare meglio e occuparsi di sé.
Sono molteplici le situazioni che possono motivare la richiesta di una consulenza psicologica. Spesso le difficoltà della vita stessa, o situazioni di disagio derivate da eventi specifici (lutti, separazioni, cambiamenti improvvisi…) oppure da sintomi specifici (ansia, panico, insonnia, depressione, insoddisfazione…) non ci permettono di stare bene, ci creano disagi che si protraggono nel tempo, interferiscono con la nostra vita e non riusciamo a gestirli. In questi momenti è necessario rivolgersi a uno “specialista della mente”, una figura professionale che ci aiuta a comprendere meglio cosa ci sta accadendo e ad avere una maggiore consapevolezza di noi e di ciò che ci circonda.
Sono profondamente convinta che la decisione di cercare aiuto ed affidarsi ad un aiuto professionale è segno di saggezza, buon senso e fiducia nel proprio potenziale. È scegliere di non stare più male.
La terapia è un investimento sulla propria vita e sul proprio futuro. Significa investire tempo ed energia per essere più cosciente delle difficoltà che ci creano sofferenza e per sviluppare nuove forme di accoglienza di se stessi e di risoluzione dei problemi.
Nel precedente articolo “Simbiosi sana e simbiosi patologica” ho affermato che nei rapporti di tutti i giorni le persone entrano ed escono continuamente dalla simbiosi con gli altri e che questo tipo di rapporti, a differenza delle dipendenza sane, comportano sempre una svalutazione.
Che cos’è la svalutazione?
La svalutazione può essere definita come un “ignorare inavvertitamente delle informazioni pertinenti alla soluzione di un problema” (Stewart – Joines, 2000).
Immaginiamo che io sia seduta in un bar per prendere un caffe, c’è molta gente e cerco di attirare l’attenzione del barista per ordinare il mio caffe, ma lui non mi presta attenzione, cerco di fare dei gesti e tento chiamarlo ma non ottengo nessuna risposta. Entra in gioco un comportamento di svalutazione nel momento in cui comincio ad avvilirmi perché nessuno mi presta attenzione, mi sento impotente e mi dico: “Per quanto io provi, non servirà a niente, sembra che nessuno mi veda”. Per arrivare a questa conclusione ho dovuto ignorare delle informazioni sulla realtà nel qui ed ora: il bar è pieno di gente, c’è caos e ho svalutato diverse opzioni per risolvere il mio problema: avrei potuto avvicinarmi al bancone del bar, alzare il tono della voce, agitare il braccio in modo più evidente…
Una svalutazione comporta sempre una sopravvalutazione: rimanendo impotente seduta al tavolino del bar e sentendomi afflitta, ho accreditato al barista un potere su di me che egli nella realtà non ha. Inoltre, una svalutazione non è mai osservabile, dato che non è possibile leggere nel pensiero degli altri.
Esistono dei comportamenti che ci possono aiutare ad individuare una svalutazione?
Ci sono quattro tipi di comportamenti che indicano sempre che stiamo effettuando una svalutazione:
- L’astensione
Es: I membri di un gruppo sono seduti in cerchio, il leader chiede a ciascuno di dire cosa gli è piaciuto dell’incontro del giorno. L’esercizio inizia ed ognuno espone le proprie motivazioni, qualcuno si limita a dire “passo”, poi è il turno di Luca. C’è silenzio ma lui non fa niente e non dice nulla, rimane seduto con lo sguardo fisso nel vuoto.
Esibiamo un comportamento come l’astensione ogni volta che utilizziamo la nostra energia per impedirci di agire, anziché usarla per intraprendere un’azione. Una persona che esibisce questo comportamento si sente a disagio e vive se stessa come una persona che non pensa, sta quindi svalutando la propria capacità di fare qualsiasi cosa riguardo alla situazione.
- L’iperadattamento
Es: Alessia ritorna a casa dopo una giornata di lavoro, vede che ci sono i piatti da lavare e che suo marito è in poltrona a leggere. Alessia dice: “Spero tu abbia avuto una buona giornata, è l’ora del tè vero?”, poi va in cucina, lava i piatti e prepara il tè.
Il comportamento di Alessia è un iperadattamento, si è adeguata a ciò che crede siano i desideri del marito e non si è fermata a pensare se voleva lavare i piatti, se non sarebbe stato più giusto che li lavasse il marito e non si è accorta che il marito non le aveva chiesto nulla. Ha agito senza verificare il desiderio dell’altro e senza nessun riferimento ai suoi bisogni. Una persona iperadattata speso viene vissuta dagli altri come fonte di aiuto, adattabile ed accomodante e a causa di questa accettabilità sociale, l’iperadattamento è il più difficile da individuare tra i quattro comportamenti passivi.
- L’agitazione
Es: Sono ad un corso di musica ma sono seduta nell’ultima fila e non riesco a vedere cosa accade davanti. Più la lezione va avanti, più mi rendo conto che non riesco ad osservare le dimostrazioni pratiche del maestro. Metto giù la penna e inizio a tamburellare con le dita sul tavolo, poi comincio a muovere rapidamente i piedi.
La persona agitata svaluta la propria capacità di agire per risolvere un problema, si sente molto a disagio, usa tutta la sua energia per intraprende attività inutili e ripetitive nel tentativo di alleviare il suo disagio. Molti di noi hanno abitudini comuni che comportano agitazione: mangiarsi le unghie, fumare, torcersi i capelli, mangiare forzatamente…
- L’incapacità o la violenza
Es: Isabella è una donna di 40 anni che vive con la madre, improvvisamente incontra un uomo e se ne innamora, decide quindi di comunicare alla madre che intende trasferirsi da lui. Un paio di giorni dopo la madre comincia ad avere strani sintomi ma il medico non rileva nulla. Isabella si sente in colpa per la decisione presa e valuta l’ipotesi di rimanere a casa con la madre.
Il comportamento della madre è una incapacità, la persona dice a se stessa che in qualche modo è incapace di fare qualcosa, svaluta la propria capacità di risolvere il problema e spera, inconsciamente, che attraverso il suo auto-rendersi incapace riesca in qualche modo a portare l’altro ad aiutarla.
Es: Dopo una furiosa lite col mio ragazzo mi ritrovo ad agire con violenza, tiro un piatto per terra e comincio a dare pugni alla porta, sto attuando comunque un comportamento passivo in quanto non è diretto a risolvere il problema.
La persona mettendo in atto comportamenti di incapacità o di violenza, lascia esplodere l’energia direttamente verso sé o gli altri in un disperato tentativo di costringere gli altri a risolvere il suo problema. Entrambi questi comportamenti di solito vengono a seguito di un periodo di agitazione, in cui la persona accumula energia che potrà scaricare poi in modo distruttivo e passivo.
Nel corso della nostra vita ci troveremo sempre di fronte ai problemi più inattesi, difficili, dolorosi… ora sappiamo che possiamo rispondere con comportamenti attivi e diretti a risolvere il problema, usando tutto il potere del nostro pensiero, delle nostre emozioni e delle nostre azioni, oppure possiamo svalutarci mettendo in atto un comportamento passivo e sperare che qualcuno simbioticamente venga a salvarci.
Nel precedente articolo Il Copione di vita: la storia della nostra vita scritta da noi stessi! ho spiegato che il Copione è un piano di vita inconscio basato su Decisioni prese ad un qualunque stadio dello sviluppo, che inibiscono e limitano la flessibilità nel risolvere problemi e nel relazionarsi agli altri (Erskine, 1980).
Le Decisioni vengono prese in risposta ai Messaggi di Copione che provengono prevalentemente dai nostri genitori (Stewart – Joines, 2000).
Come vengono trasmessi i Messaggi di Copione?
Ancor prima di essere capace di parlare il bambino interpreta i messaggi non verbali dei genitori. Ha una percezione acuta delle espressioni, delle tensioni corporee, dei movimenti, dei toni di voce. Se la mamma lo tiene stretto e al caldo, il bambino sentirà: “Io ti accetto e ti amo”, ma se la mamma lo tiene rigidamente, un po’ discostato da sé, il bambino può sentire: “Io ti rifiuto e non ti voglio vicino”. La mamma può essere del tutto inconsapevole delle proprie tensioni verso il suo bambino.
Quando il bambino comincia a capire il linguaggio, la comunicazione non verbale è ancora importante e la userà per interpretare le parole dei genitori. Ad esempio, il piccolo Marco porta a casa un nuovo libro ed inizia a leggere, il papà con tono aspro dice: “Hai letto male!”, Marco potrebbe interpretare le parole del papà così: “Non voglio averti intorno”.
I Messaggi di copione spesso sono espressi sotto forma di ordini diretti: “Sbrigati!”, “Non essere stupido!”, “Fai quello che ti ho detto!”. La potenza di questi Messaggi dipenderà da quanto sono ripetuti e dai segnali non verbali che li accompagnano.
Spesso al bambino non viene detto solo ciò che deve fare, ma anche quello che è: “Tu sei la mia bambina”, “Non ce la farai mai”, “Sei brava a leggere”. Il contenuto può essere positivo o negativo, diretto o indiretto: “Non è molto forte, sapete”. Spesso il bambino dà per scontato che tali messaggi siano la realtà e su questi si modella e si adatta.
Quali sono i Messaggi di Copione? Sono i comandi e i permessi.
In Analisi Transazionale definiamo Contro-ingiunzioni i comandi su cosa fare e cosa non fare, più alcune definizioni degli altri e della realtà. Tutti noi ne abbiamo ricevuti moltissimi. Eccone alcuni tipici: “Sii buono”, “Lavora sodo”, “Bisogna lavare i panni sporchi in casa”, “Non si dicono le bugie”.
In riferimento alle contro-ingiunzioni prendiamo delle Decisioni per adeguarci agevolmente al contesto sociale e questi comandi ci aiutano a non urlare a tavola, a non buttare a terra il cibo che non vogliamo… tuttavia ci sono dei messaggi che influenzeranno la nostra vita in modo negativo.
Ecco le cinque contro-ingiunzioni principali:
“Sii perfetto” – “Sii forte” – “Sforzati” – “Cerca di piacere” – “Sbrigati”
Se il bambino sente una coazione a seguire questi messaggi, vuol dire che è convinto di poter essere OK fintantoché obbedisce al comando. Può accadere quindi che da adulto lavorerò talmente tanto sodo da farmi venire un ulcera per lo stress, pur di seguire il comando “Sforzati”, oppure non mi esporrò mai in modo diretto e sarò sempre accomodante verso i desideri altrui, sopprimendo i miei bisogni per obbedire al comando “Cerca di piacere” .
Definiamo invece Ingiunzioni i permessi. Le ingiunzioni non sono verbali, vengono avvertite sotto forma di emozioni, di sensazioni corporee e sono rispecchiate nel comportamento. Immaginate una madre con il suo neonato, nell’accudirlo la mamma potrebbe tornare indietro alla sua infanzia e potrebbe provare piacere dallo scambio di carezze, come le piaceva essere accarezzata quando lei stessa era molto piccola. È probabile che il neonato avverta: “Mamma mi vuole e le piace che io sia vicino a lei”. La mamma sta dando al neonato il permesso di esistere e di starle vicino. Tuttavia la mamma potrebbe invece avvertire qualcosa di diverso: “Tutto questo è pericoloso, ora c’è un nuovo bambino che dovrà avere tutta l’attenzione, quando otterrò attenzione io?”. La mamma potrebbe essere spaventata dal nuovo arrivo e potrebbe inconsciamente sentire un rifiuto verso di lui e quindi trasmettere al bambino “Mamma non ti vuole”.
I terapeuti Bob e Mary Goulding (1976) hanno elaborato un elenco di dodici Ingiunzioni base, sulle quali vengono prese le prime Decisioni negative di Copione:
“Non essere” – “Non essere te stesso” – “Non essere un bambino” – “Non crescere” – “Non riuscire” – “Non fare niente” – “Non essere importante” – “Non far parte” – “Non entrare in intimità” – “Non star bene” – “Non pensare” – “Non sentire”
Ad esempio il “Non sentire” può essere modellato da quei genitori che soffrono essi stessi per le loro emozioni e spesso in queste famiglie sono proibite le manifestazioni di emozioni.
Oppure un genitore potrebbe spesso sminuire il pensiero del figlio: Andrea tutto orgoglioso mostra al papà i suoi sforzi per scrivere il proprio nome, il papà storce il naso e dice: “Che genio che sei!”, il padre sta tramettendo l’ingiunzione “Non pensare”.
I Messaggi di Copione non possono costringere un bambino a scrivere il proprio Copione, è sempre il bambino che decide cosa fare dei comandi e dei permessi ricevuti. Può accettarli così come sono, può modificarli, può rifiutarli. I bambini sono attenti osservatori e in particolare osservano la propria mamma e il proprio papà e spesso pensano: “Quale è il modo migliore per ottenere ciò di cui ho bisogno, qui?”. A tal proposito nel precedente articolo definivo il Copione come la migliore strategia che abbiamo trovato da bambini per sopravvivere al mondo.
Se pensate alla vostra vita sicuramente troverete Comandi e Permessi a voi famigliari e che condizionano la vostra vita quotidiana. Essere consapevoli di questi Messaggi è il primo passo per cominciare ad aggiornare il vostro Copione di vita.
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Le Decisioni vengono prese in risposta ai Messaggi di Copione che provengono prevalentemente dai nostri genitori.
Quando un ragazzo adolescente può rivolgersi ad uno psicoterapeuta?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaSpesso accade che i ragazzi, nel periodo dell’adolescenza, abbiano delle "battute di arresto" che si manifestano con improvvisi crolli scolastici, chiusura e ritiro apparentemente immotivati, tristezza e apatia, perdita di interesse per il futuro, scatti d'ira e aggressività, comportamenti eccessivamente euforici e disinibiti, condotte a rischio come abuso di alcolici e uso di sostanze.
Nella maggior parte dei casi questi comportamenti sono segnali della fatica del ragazzo nel superare in modo adeguato i "compiti tipici" di questa fase evolutiva: la definizione di una propria identità, la costruzione di una autonomia crescente, le gestione dei sentimenti ambivalenti verso i genitori, la comprensione e il rispetto per un corpo che sta cambiando, la gestione di pensieri, sentimenti, pulsioni, fino ad ora sconosciuti. E' importante non sottovalutare questi segnali di disagio al fine di permettere all'adolescente di riprendere nel più breve tempo possibile il suo percorso di crescita, evitando rischiosi blocchi evolutivi.
Gli adolescenti che si trovano in questa condizione possono rivolgersi alla psicoterapia per mettere a fuoco l'ostacolo che sta impedendo lo svolgersi del loro percorso di crescita e per scoprire le proprie risorse, indispensabili per il cambiamento.
I colloqui con gli adolescenti sono pensati e strutturati in modo da seguire le specifiche esigenze dei ragazzi che affrontano una delicata fase di passaggio, non più bambini ma non ancora pienamente adulti. L'adolescente è parte attiva del lavoro svolto in seduta e viene sostenuto nello sperimentare nella vita quotidiana ciò che ha appreso di sé.
La durata temporale è tendenzialmente breve, proprio perché cerca di favorire l'autonomia e il fisiologico percorso di emancipazione che un adolescente deve affrontare.
Cosa accade quando un genitore chiede un colloquio psicologico per il proprio figlio?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaDopo aver individuato un disagio nei propri figli adolescenti, spesso i genitori che si rivolgono a uno psicologo per una consulenza hanno difficoltà ad immaginarsi come riuscire a coinvolgerlo all’interno della consultazione: si aspettano un suo rifiuto, temono che lui non ne senta il bisogno, non sanno se e come potranno convincerlo, dato che “ormai è abbastanza grande”.
In situazioni simili è importante che essi condividano con lo specialista innanzitutto le proprie ipotesi, a partire dalle quali pensare insieme cosa e come riferire al figlio.
Un punto di partenza fondamentale è quello di essere sinceri con il ragazzo. In primo luogo perché se un adolescente manifesta dei sintomi o delle difficoltà è importante possa sentire che i propri genitori ne sono consapevoli e che hanno a cuore il fatto di affrontare la questione. Secondariamente perché sentendosi capito e supportato dai propri adulti di riferimento, possa affrontare con maggior fiducia il momento di conoscenza con lo psicologo.
In presenza di un adolescente, diventa molto importante la costruzione di un’alleanza basata su una questione fondamentale: le informazioni che porterà in colloquio non verranno integralmente riferite ai genitori, ma verrà concordato insieme cosa comunicare e cosa no. Questo perché si tratta comunque di un soggetto in fase evolutiva dal punto di vista psicologico e minorenne di fronte alla legge, quindi in ogni caso da proteggere.
Il tutto si pone nell'ottica fondamentale di poter favorire la massima collaborazione attiva da parte del ragazzo, che possa sentirsi quanto più possibile libero di manifestare i propri pensieri, emozioni, affetti.
La psicoterapia è un intervento che mira ad aiutare una persona che si trova in un momento di crisi o di sofferenza e non riesce a capire quale sia la causa di questo stato o come trovare sollievo per ristabilire equilibrio nella propria vita.
La psicoterapia è, dunque, uno spazio di ascolto e di sostegno nel quale il terapeuta lavora con il cliente per individuare la problematica centrale che crea malessere, promuovendo strategie per accrescere il benessere e migliorare la qualità della vita. Il trattamento psicoterapeutico è finalizzato al conseguimento della migliore realizzazione di se stessi, delle proprie capacità e potenzialità; all’aumento della conoscenza di sé e l'accettazione dei propri limiti; alla riduzione della sofferenza psicopatologica.
La psicoterapia è un percorso che può essere intrapreso anche da persone che non soffrono di un disagio in particolare, ma che hanno il desiderio di imparare a conoscersi e rendersi più consapevoli di alcuni aspetti di sé.
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Perché andare da uno psicoterapeuta se ho gli amici che mi vogliono bene?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaSpesso si confonde il supporto e il sostegno che offre un amico che ci vuole bene, che ci conosce e ci propone dei suggerimenti, dal ruolo svolto da uno psicoterapeuta in un percorso professionale di terapia. La comprensione, la vicinanza e il supporto che si ricevono da un amico, sono molto diverse da quelle che si ricevono da un terapeuta.
La relazione terapeutica è una relazione reale tra due persone che interagiscono nel qui ed ora, in uno spazio condiviso all’interno di un contesto definito da regole. Dunque, è un rapporto tra due individui che si impegnano a lavorare per un obiettivo comune, ciascuno con il proprio ruolo e competenza specifica e partecipano in modo attivo e responsabile al processo terapeutico, all’interno di una relazione paritaria.
Il compito principale del terapeuta è quello di facilitare il processo di autoconsapevolezza del paziente, per permettergli di riprendersi il proprio potere personale e di esercitarlo proprio in quelle situazioni in cui sperimenta disagio o malessere. Il terapeuta evita di sostituirsi al paziente e non offre indicazioni e suggerimenti sul modo di risolvere i problemi.
È fondamentale che nella relazione terapeutica ci sia un sincero clima di accettazione e comprensione, dunque, il terapeuta deve saper cogliere i significati profondi del paziente, rispettandone la soggettiva individualità, al fine di evitare di incorniciare il paziente stesso e il problema presentato all’interno di una propria struttura di valori e convinzioni.
Lo strumento fondamentale per ogni tipo di relazione è la comunicazione. Ma come comunichiamo ai nostri cari? Come mai a volte ci arrabbiamo o siamo a disagio parlando di cose futili?
Vediamo un esempio
Il marito con voce dura e le sopracciglia inarcate: “Dove sta la mia camicia?”
La moglie con voce lamentosa, stringe le spalle, alza le sopracciglia e dice: “L’ho messa nel tuo cassetto!”
Nelle transazioni possiamo individuare sempre due livelli di comunicazione: uno sociale (ciò che le persone dicono) ed uno psicologico (ciò che le parole sottendono, i “messaggi nascosti”).
In questo esempio il livello psicologico potrebbe essere espresso in questo modo:
Marito: “Tieni sempre le mie cose in disordine?”
Moglie: “Tu mi critichi sempre ingiustamente!”
Quasi sempre la nostra reazione emotiva e comportamentale risponde al livello psicologico della transazione. Lo psicologo canadeseEric Berne (1971) afferma che ciò che avviene in seguito ad uno scambio tra due persone è sempre determinato dai “messaggi nascosti” nella comunicazione.
Ma come possiamo capire questi messaggi nascosti?
Berne parlava di un piccolo omino che venuto da Marte scende sulla terra ad osservare le cose terrene. Questo omino non ha alcun preconcetto su cosa intendono significare le nostre comunicazioni ed osserva semplicemente come comunichiamo, poi nota i comportamenti che ne seguono.
Se ci capita di sentirci a disagio o arrabbiati o delusi mentre parliamo con una persona, possiamo provare ad essere questo piccolo marziano, in modo da capire cosa la persona ci sta comunicando e cosa noi stiamo comunicando all’altro.
Per “pensare marziano” è fondamentale osservare i segnali non verbali che ritroviamo nel tono di voce, nei gesti, nell’atteggiamento corporeo, nella respirazione, ecc.
I bambini piccoli leggono intuitivamente questi segnali, tuttavia, crescendo veniamo educati a cancellare questa nostra intuizione (“Non è educato
guardare fisso la gente mentre parla”). In un certo senso dovremmo ri-esercitarci a notare questi segnali che a volte sono addirittura contrari ai nostri messaggi verbali.
Al fine di mantenere una comunicazione fluida è importante mantenere le transazioni parallele. Ma che sono le transazioni parallele?
Peter con voce pacata e gentile chiede: “Ti andrebbe di passare a prendermi alle 20?”Andy con volto sereno risponde: “Va bene, a piùtardi”
Nelle transazioni parallele i protagonisti rispondono al livello sociale della transazione e i segnali corporei confermano i messaggi verbali della comunicazione.
Invece nelle transazioni complementari le persone rivestono due ruoli, complementari appunto, tipo “genitore-bambino”, “persecutore-vittima”.
Ad esempio il Capo rimprovera e critica Mary, la quale si scusa mortificata. Questo tipo di transazioni sono prevedibili e possono continuare senza fine.
Capo: “Questa lettera la dovevi scrivere su un foglio di carta più piccolo, ti avevo detto di farti un promemoria”
Mary con tono sottomesso: “Ho sbagliato, mi dispiace, in questi giorni ho avuto tanto da fare”
Infine nelle transazioni incrociate si assiste ad una interruzione della comunicazione ed una o entrambe le persone dovranno cambiare il proprio “stato” affinché la comunicazione possa proseguire.
Peter con voce pacata chiede: “Che ore sono?”
Andy si alza, aggrotta le ciglia e dice: “Sei sempre in ritardo!”
In questo tipo di transazione Peter pone una domanda da uno stato che potremmo definire “Adulto” ed Andy risponde da uno stato “Genitore Critico”. I due protagonisti, dunque, non condividono lo stesso “stato” ed è molto probabile che la comunicazione converga in argomenti diversi dallo stimolo di partenza.
Ma quindi esistono transazioni “buone” e “cattive”? In realtà no.
Utilizzare una transazione incrociata, ed esempio, potrebbe essere molto utile nel caso in cui il vicino di casa abbia deciso di raccontarci la sua vita sulla porta dell’ascensore, oppure se Mary decidesse di interrompere la catena comunicativa con il suo Capo, potrebbe incrociare la transazione dicendo:
Mary: “Mi dica per favore su che tipo di carta vuole queste lettere in futuro”.
Ed infine potrebbe essere piacevole utilizzare una transazione complementare con il proprio compagno:
John buttandosi sulla poltrona: “Sono proprio stanco! Me lo faresti un massaggio?”
June con tono carezzevole: “Certo, arrivo subito”.
Secondo Stephen Karpman (1971) possiamo sempre scegliere nuovi modi di comunicare così da interrompere il nostro modo abituale di reagire agli altri. Ogniqualvolta ci sentiamo bloccati mentre comunichiamo, possiamo provare a riflettere su quanto accaduto “come omini venuti da Marte” e scegliere di volta in volta che tipo di transazione utilizzare.
È davvero giustificata l’enfasi con cui si sottolinea l’effettivo aumento della depressione negli indici epidemiologici?
Il termine depressione ha molti significati.
La depressione, intesa come umore o stato emotivo, fa parte della normale esperienza umana. La distinzione tra umore depresso e depressione clinica, però, non è sempre chiara. Solo una ristretta minoranza di persone presenta sintomi depressivi tali da corrispondere ad un disturbo clinico, molto più numerose sono le persone che fanno esperienza di uno stato d’umore depressivo.
Circa il 40% della popolazione riferisce di aver provato nel corso della propria vita sentimenti di depressone, delusione e infelicità.
Ciascuno di noi aspira a vivere la propria vita con gioia e gratificazione, realizzando non solo il benessere fisico ma soprattutto quello interiore. Tuttavia, la nostra esistenza è segnata da momenti di dolore e questo è inevitabile.
La vita comporta delusioni, fatiche, perdite.
A molti di noi è capitato di perdere una persona cara, di concludere una storia d’amore, di perdere il proprio lavoro o uno status sociale: sono tutti eventi che segnano una crisi nel nostro equilibrio interiore e mettono in discussione i nostri valori.
C’è bisogno di tempo per assimilare le perdite e i grandi cambiamenti: i movimenti psichici richiedono gradualità e una certa lentezza.
Quando parliamo di depressione clinica ci riferiamo a sentimenti di mortificazione, inadeguatezza, fallimento, disperazione, colpa che perdurano nel tempo e che nel tempo possono offuscare il piacere della vita.
Chi soffre di depressione presenta un abbassamento nel tono dell’umore e una riduzione delle spinte vitali. Vengono meno la fiducia nelle proprie risorse e la speranza nel futuro. Attività quotidiane che un tempo erano naturali e fonte di piacere, come accudire i figli, investire nei rapporti sociali, lavorare, fare sport, possono diventare talvolta impossibili.
Il mondo sbiadisce e insieme la voglia di parteciparvi. Tutto sembra rallentare: il proprio corpo, lo scorrere dei pensieri e delle parole, il tempo vissuto.
Tutto questo genera inquietudini e vissuti di ansietà che non danno pace.
Altre volte, la sofferenza può mascherarsi in un corpo “sofferente”, compaiono quindi dolori diffusi, mancanza di appetito, disturbi del sonno, cefalee o preoccupazioni consistenti rispetto alla salute fisica.
La depressione clinica è quindi caratterizzata da una significativa accentuazione nell’intensità, pervasività e durata di emozioni e sentimenti altrimenti normali nella vita di ognuno di ciascuno di noi (“mi sento giù“, “oggi ho un umore nero“, “mi sento afflitto edeluso“).
Credo di essere depresso, cosa devo fare?
Tanti sono i fattori che possono dare origine a questa forma di sofferenza. È importante innanzitutto riconoscere la depressione come una patologia.
I farmaci per quanto efficaci su molti sintomi depressivi, non sono risolutivi, in quanto non agiscono sui fattori profondi che portano una persona a ripiegare nella depressione.
Questi aspetti inconsci sono meglio affrontabili con un percorso di psicoterapia. Quest’ultima in particolare può offrire uno spazio di accoglienza e riconoscimento dei propri vissuti, che sostiene la persona in un percorso di conoscenza di sé volto a mettere in parola quel dolore tanto ingombrante e per riaccendere quella scintilla di vita che sembra momentaneamente perduta.
Esiste un'ansia "normale" e un'ansia "patologica"
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaNella società odierna l’ansia fa ampiamente parte della vita quotidiana di ognuno di noi.
Viviamo in un mondo in cui i cambiamenti si susseguono rapidi, ogni giorno si scoprono nuovi rischi, pericoli, malattie, ogni giorno si sente parlare di “crisi”: nell'economia, nei valori di riferimento, crisi che investe la famiglia e le nuove generazioni, crisi nella rappresentazione del futuro. Insomma, molto più che in passato, il clima sociale sembra alimentare una certa quota di ansietà.
Tuttavia, ciò non basta per spiegare come mai ci può capitare di vivere periodi della nostra vita in uno stato di forte ansia.
Le nostre emozioni, infatti, rispondono sempre a logiche soggettive e spesso hanno radici profonde nella psiche e nella storia di ognuno di noi. Ansia ed inquietudine, in particolar modo, sono emozioni che possono aumentare sotto il peso dei conflitti e degli eventi dolorosi della propria vita.
Chi soffre d’ansia può avere difficoltà ad addormentarsi, si sveglia nel corso della notte e al mattino si alza con una sensazione di spossatezza.
Così, una forte ansia può diventare estenuante, tanto da generare sintomi tipici dello sfinimento, quali: tensione, infelicità, inattività, cefalea, dolori agli arti o alla schiena, tensione muscolare, tachicardia.
Il disturbo più costante e spiacevole spesso concerne proprio il sonno. Tutti questi sintomi possono naturalmente essere mutevoli e possono alternarsi a momenti di maggior benessere e ottimismo.
È importante, allora, saper distinguere tra l’ansia “normale” e l’ansia “patologica”.
Ansia "normale"
L’ansia “normale” è transitoria e proporzionata agli eventi, non incide sulla salute fisica e mentale, permette anzi un miglior adattamento, in quanto informa l’individuo sui pericoli a cui potrebbe andare incontro e lo indirizza nella ricerca di soluzioni adeguate al contesto. L’ansia “normale” è costruttiva: è una fonte di curiosità, intelligenza, apertura al mondo, provoca uno stato di tensione psicologica che aiuta la persona ad attivare risorse e capacità operative finalizzate alla risoluzione di un problema.
Nei casi in cui l’individuo non riesce a trovare soluzioni adattive per fronteggiare situazioni sconosciute o potenzialmente pericolose, l’ansia può perdere le sue caratteristiche funzionali ed assumere un carattere patologico, determinando vissuti di impotenza e di passività nel controllo delle proprie emozioni.
Dunque, un criterio differenziale tra la “normale” reazione ansiosa e l’ansia “patologica” è rappresentato dal fatto che la prima amplifica le capacità operative del soggetto, mentre la seconda le disturba inibendole e influendo negativamente sulle prestazioni.
Ansia "patologica"
L’ansia “patologica” costituisce spesso un freno: paralizza, blocca, fa sentire impotenti.
È intensa, sproporzionata agli eventi, ha una durata ed un’intensità eccessive, è difficile da controllare e anche se talvolta se ne colgono le origini, questo disagio influenza in maniera consistente la propria vita. Spesso interferisce con lo svolgimento dell’attività lavorativa, in quanto insorgono continue preoccupazioni e dubbi assillanti (Ho pensato proprio a tutto? Sarò all’altezza del compito?…), oppure può influenzare il rapporto con gli altri e diventare motivo di apprensione, fin quando sarà sempre più difficile godere della compagnia delle persone.
L’ansia patologica, assume inoltre caratteristiche auto-invalidanti, per cui l’individuo perpetua comportamenti disadattivi per lunghi periodi di tempo, spesso giudicati dalla persona stessa come irrazionali e inadeguati. In tal caso, l’ansia diviene sia la causa, sia la conseguenza del nostro malessere.
Cosa fare quando l'animo si agita troppo?
Spesso chi soffre a causa di un disagio ansioso si rivolge in prima istanza al medico di base, nella speranza di essere aiutato a “liberarsi” da questa zavorra che limita pesantemente la propria vita. I farmaci in realtà possono offrire un sollievo, ma raramente sono da soli risolutivi.
Essi possono attenuare le componenti fisiologiche dell’ansia, tuttavia, in assenza di una rielaborazione, le cause più profonde dell’ansia e le modalità di risposta con cui affrontiamo gli stimoli per noi ansiogeni, rimangono immodificati.
È importante ricordare che un’ansia intensa può essere il segnale di una problematica più profonda che necessita di essere compresa. L’ansia è un “segnale d’allarme” che invita a fermarsi.
Per questo motivo, chi soffre d’ansia può trarre beneficio da un percorso di psicoterapia eventualmente affiancato da un intervento farmacologico. Quest’ultimo può favorire una comprensione più profonda del proprio disagio, stabilendo dei nessi tra il vissuto ansioso e le condizioni interne che lo generano e favorendo l’individuazione di meccanismi di risposta più adattivi e funzionali e che possono riportarci ad uno stato di benessere.