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Consultazione genitoriale: che cos’è e come possiamo aiutarvi

 

Cos’è la consultazione genitoriale?

Talvolta ci troviamo a gestire, come genitori, alcune difficoltà nella relazione con nostro figlio, che, sebbene piccole o transitorie, possono comunque incidere negativamente sulla serenità della famiglia. Anche un bimbo assolutamente “sano” sotto il profilo medico e con un livello intellettivo nella norma, può presentare alcuni “sintomi” al livello comportamentale e relazionale di fronte ai quali non sappiamo cosa fare, finendo per sentirci impotenti.

Nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, si possono infatti presentare:

  • paure (talvolta vere e proprie fobie)
  • enuresi
  • un'espressione della rabbia che può apparirci eccessiva o scollegata con quanto sta accadendo
  • rifiuto ad andare a scuola
  • disubbidienza persistente
  • oppositività
  • inosservanza delle regole
  • dipendenza
  • richieste eccessive di attenzione
  • insicurezza
  • chiusura
  • difficoltà a socializzare con altri bimbi.

Questi sono solo alcuni dei modi in cui un bambino può manifestare uno stato di disagio, facendo sì che, di fatto, lo sperimentiamo anche noi in prima persona. In effetti, la principale caratteristica del disagio di un bambino consiste nel creare, a corto circuito immediato, una situazione di sofferenza/insofferenza nell’adulto con cui interagisce: di fronte ad un bambino che “sta male” e manifesta tale star male con comportamenti non accettabili, anche l’adulto che di lui si prende cura “sta male” a sua volta, perché questo è il normale modo di comunicare a livello umano quando sono in ballo contenuti di ordine emotivo.

In tali situazioni in cui la buona volontà di chi quotidianamente lo alleva, non è sufficiente a promuovere significativi cambiamenti nel comportamento del bambino, la consultazione genitoriale può davvero fare la differenza.

 

Come possiamo aiutarvi?

Noi partiamo dal presupposto che il “comportamento problematico” che il bambino mostra in famiglia o a scuola rappresenti una sorta di “messaggio in codice” che egli invia a noi, adulto di riferimento; un messaggio “senza pensiero” sotto il quale nasconde un bisogno non espresso in modo chiaro, al quale rischiamo di fornire, sotto stress, una risposta istintiva finendo per ignorare, inconsapevolmente, la richiesta di aiuto che si cela dietro il comportamento problematico.

L’obiettivo che ci poniamo nella consultazione genitoriale è quello di supportare gli adulti di riferimento, facilitando una corretta decodifica del messaggio relazionale, nonché l’individuazione di un’adeguata risposta: se, come già detto, il comportamento è un messaggio senza pensiero, va da sé che il ruolo dell’adulto coinvolto in un processo educativo sarà proprio quello di “mettere del pensiero” sul messaggio veicolato dal comportamento del bambino.

In sintesi, questa cornice di significato sposta il ruolo del genitore da “vittima” della sofferenza creata dal disagio del bambino ad artefice principale della strategia di aiuto: l’adulto, posto al centro del circuito, esce dallo stato d’impotenza a cui lo costringeva il subire il disagio e si assume il potere di raccogliere la sofferenza per rispondervi in modo costruttivo.

La nostra esperienza ci dice che questa è la via da percorrere per uscire dallo stallo e ritrovare la serenità.

L’adolescenza è la fase della vita durante la quale l’individuo conquista le abilità e le competenze necessarie ad assumersi le responsabilità relative al futuro stato di adulto. Questo periodo di transizione dallo stato di bambino a quello di giovane adulto prevede una costante evoluzione e continue trasformazioni che spesso, dall’esterno, vengono scambiate per volubilità, instabilità, squilibrio e il genitore può trovarsi a percepire il proprio figlio come una persona improvvisamente diversa e “nuova”. Ma quando i rapidi e consistenti cambiamenti causano veramente una fase di disequilibrio che si può protrarre nel tempo? Quali sono i segnali di disagio più frequenti ai quali dover fare attenzione? Le manifestazioni del disagio del ragazzo o della ragazza possono essere rilevati attraverso una serie di segnali dei quali di seguito elenco alcuni dei più frequenti. Ci tengo a sottolineare che non si parla di diagnosi ma di segnali di stati di sofferenza, il cui senso e la cui rilevanza o meno vanno valutati caso per caso:

  • rabbia e aggressività (mi arrabbio con estrema facilità, perdo il controllo, odio tutti)
  • isolamento rispetto al gruppo dei coetanei (non ho voglia di vedere nessuno, non me la sento di uscire di casa)
  • disagio nelle relazioni con i coetanei (non riesco a parlare con gli altri, gli altri, nessuno mi ascolta, non riesco a farmi degli amici)
  • difficoltà ad affermare la propria personalità, crisi di identità (chi sono? non mi riconosco più?)
  • problemi scolastici (non mi importa niente della scuola, non riesco a dimostrare che sono capace, non sono intelligente)
  • disfunzioni nell'alimentazione (non ho fame, il cibo mi ripugna, oppure ho sempre fame, ci sono momenti in cui non riesco a smettere di mangiare, vomito quello che ho mangiato)
  • disagio rispetto al proprio corpo (non mi piaccio, sono cambiato e non mi piace come sono adesso)
  • dubbi sulla propria identità sessuale (non so se mi piacciono le ragazze o i ragazzi, ho il timore di essere gay, ho il timore di essere lesbica)
  • conflittualità con i genitori (non riescono a capirmi, mi trattano come se fossi un bambino, invadono i miei spazi, non li sopporto più)
  • angosce e paure (ho paura di stare da solo, in certe situazioni mi blocco, ho paura di quello che gli altri pensano di me)
  • ossessioni (ho dei pensieri che mi disturbano e che non riesco a controllare, mi lavo le mani in continuazione, accendo e spengo la luce senza motivo...)
  • autolesionismo manifestato attraverso pensieri o veri e propri comportamenti (ho pensato di suicidarmi, penso di farmi del male, mi taglio, faccio cose pericolose, bevo)
  • somatizzazioni cioè malessere fisico per cui è stata verificata l'assenza di una causa organica (mi viene spesso mal di testa, mi va a fuoco lo stomaco, ho la pelle sempre irritata)
  • sofferenze sentimentali (nessuno mi vuole, chi potrebbe amarmi così come sono)
  • difficoltà a riconoscere con chiarezza i propri obiettivi di vita (non so in che direzione andare, non so cosa voglio).
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Nel precedente articolo Il Copione di vita: la storia della nostra vita scritta da noi stessi! ho spiegato che il Copione è un piano di vita inconscio basato su Decisioni prese ad un qualunque stadio dello sviluppo, che inibiscono e limitano la flessibilità nel risolvere problemi e nel relazionarsi agli altri (Erskine, 1980).

Le Decisioni vengono prese in risposta ai Messaggi di Copione che provengono prevalentemente dai nostri genitori (Stewart – Joines, 2000).

Come vengono trasmessi i Messaggi di Copione?

Ancor prima di essere capace di parlare il bambino interpreta i messaggi non verbali dei genitori. Ha una percezione acuta delle espressioni, delle tensioni corporee, dei movimenti, dei toni di voce. Se la mamma lo tiene stretto e al caldo, il bambino sentirà: “Io ti accetto e ti amo”, ma se la mamma lo tiene rigidamente, un po’ discostato da sé, il bambino può sentire: “Io ti rifiuto e non ti voglio vicino”. La mamma può essere del tutto inconsapevole delle proprie tensioni verso il suo bambino.

Quando il bambino comincia a capire il linguaggio, la comunicazione non verbale è ancora importante e la userà per interpretare le parole dei genitori. Ad esempio, il piccolo Marco porta a casa un nuovo libro ed inizia a leggere, il papà con tono aspro dice: “Hai letto male!”, Marco potrebbe interpretare le parole del papà così: “Non voglio averti intorno”.

I Messaggi di copione spesso sono espressi sotto forma di ordini diretti: “Sbrigati!”, “Non essere stupido!”, “Fai quello che ti ho detto!”. La potenza di questi Messaggi dipenderà da quanto sono ripetuti e dai segnali non verbali che li accompagnano.

Spesso al bambino non viene detto solo ciò che deve fare, ma anche quello che è: “Tu sei la mia bambina”, “Non ce la farai mai”, “Sei brava a leggere”. Il contenuto può essere positivo o negativo, diretto o indiretto: “Non è molto forte, sapete”. Spesso il bambino dà per scontato che tali messaggi siano la realtà e su questi si modella e si adatta.

Quali sono i Messaggi di Copione? Sono i comandi e i permessi.

In Analisi Transazionale definiamo Contro-ingiunzioni i comandi su cosa fare e cosa non fare, più alcune definizioni degli altri e della realtà. Tutti noi ne abbiamo ricevuti moltissimi. Eccone alcuni tipici: “Sii buono”, “Lavora sodo”, “Bisogna lavare i panni sporchi in casa”, “Non si dicono le bugie”.

In riferimento alle contro-ingiunzioni prendiamo delle Decisioni per adeguarci agevolmente al contesto sociale e questi comandi ci aiutano a non urlare a tavola, a non buttare a terra il cibo che non vogliamo… tuttavia ci sono dei messaggi che influenzeranno la nostra vita in modo negativo.

Ecco le cinque contro-ingiunzioni principali:

“Sii perfetto” – “Sii forte” – “Sforzati” – “Cerca di piacere” – “Sbrigati”

Se il bambino sente una coazione a seguire questi messaggi, vuol dire che è convinto di poter essere OK fintantoché obbedisce al comando. Può accadere quindi che da adulto lavorerò talmente tanto sodo da farmi venire un ulcera per lo stress, pur di seguire il comando “Sforzati”, oppure non mi esporrò mai in modo diretto e sarò sempre accomodante verso i desideri altrui, sopprimendo i miei bisogni per obbedire al comando “Cerca di piacere” .

Definiamo invece Ingiunzioni permessi. Le ingiunzioni non sono verbali, vengono avvertite sotto forma di emozioni, di sensazioni corporee e sono rispecchiate nel comportamento. Immaginate una madre con il suo neonato, nell’accudirlo la mamma potrebbe tornare indietro alla sua infanzia e potrebbe provare piacere dallo scambio di carezze, come le piaceva essere accarezzata quando lei stessa era molto piccola. È probabile che il neonato avverta: “Mamma mi vuole e le piace che io sia vicino a lei”. La mamma sta dando al neonato il permesso di esistere e di starle vicino. Tuttavia la mamma potrebbe invece avvertire qualcosa di diverso: “Tutto questo è pericoloso, ora c’è un nuovo bambino che dovrà avere tutta l’attenzione, quando otterrò attenzione io?”. La mamma potrebbe essere spaventata dal nuovo arrivo e potrebbe inconsciamente sentire un rifiuto verso di lui e quindi trasmettere al bambino “Mamma non ti vuole”.

I terapeuti Bob e Mary Goulding (1976) hanno elaborato un elenco di dodici Ingiunzioni base, sulle quali vengono prese le prime Decisioni negative di Copione:

“Non essere” – “Non essere te stesso” – “Non essere un bambino” – “Non crescere” – “Non riuscire” – “Non fare niente” – “Non essere importante” – “Non far parte” – “Non entrare in intimità” – “Non star bene” – “Non pensare” – “Non sentire”

Ad esempio il “Non sentire” può essere modellato da quei genitori che soffrono essi stessi per le loro emozioni e spesso in queste famiglie sono proibite le manifestazioni di emozioni.

Oppure un genitore potrebbe spesso sminuire il pensiero del figlio: Andrea tutto orgoglioso mostra al papà i suoi sforzi per scrivere il proprio nome, il papà storce il naso e dice: “Che genio che sei!”, il padre sta tramettendo l’ingiunzione “Non pensare”.

I Messaggi di Copione non possono costringere un bambino a scrivere il proprio Copione, è sempre il bambino che decide cosa fare dei comandi e dei permessi ricevuti. Può accettarli così come sono, può modificarli, può rifiutarli. I bambini sono attenti osservatori e in particolare osservano la propria mamma e il proprio papà e spesso pensano: “Quale è il modo migliore per ottenere ciò di cui ho bisogno, qui?”. A tal proposito nel precedente articolo definivo il Copione come la migliore strategia che abbiamo trovato da bambini per sopravvivere al mondo. 

Se pensate alla vostra vita sicuramente troverete Comandi e Permessi a voi famigliari e che condizionano la vostra vita quotidiana. Essere consapevoli di questi Messaggi è il primo passo per cominciare ad aggiornare il vostro Copione di vita.

 

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Le Decisioni vengono prese in risposta ai Messaggi di Copione che provengono prevalentemente dai nostri genitori.

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Dopo aver individuato un disagio nei propri figli adolescenti, spesso i genitori che si rivolgono a uno psicologo per una consulenza hanno difficoltà ad immaginarsi come riuscire a coinvolgerlo all’interno della consultazione: si aspettano un suo rifiuto, temono che lui non ne senta il bisogno, non sanno se e come potranno convincerlo, dato che “ormai è abbastanza grande”.

In situazioni simili è importante che essi condividano con lo specialista innanzitutto le proprie ipotesi, a partire dalle quali pensare insieme cosa e come riferire al figlio.

Un punto di partenza fondamentale è quello di essere sinceri con il ragazzo. In primo luogo perché se un adolescente manifesta dei sintomi o delle difficoltà è importante possa sentire che i propri genitori ne sono consapevoli e che hanno a cuore il fatto di affrontare la questione. Secondariamente perché sentendosi capito e supportato dai propri adulti di riferimento, possa affrontare con maggior fiducia il momento di conoscenza con lo psicologo.

In presenza di un adolescente, diventa molto importante la costruzione di un’alleanza basata su una questione fondamentale: le informazioni che porterà in colloquio non verranno integralmente riferite ai genitori, ma verrà concordato insieme cosa comunicare e cosa no. Questo perché si tratta comunque di un soggetto in fase evolutiva dal punto di vista psicologico e minorenne di fronte alla legge, quindi in ogni caso da proteggere.

Il tutto si pone nell'ottica fondamentale di poter favorire la massima collaborazione attiva da parte del ragazzo, che possa sentirsi quanto più possibile libero di manifestare i propri pensieri, emozioni, affetti. 

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Ognuno di noi ha scritto la storia della propria vita. Cominciamo a scriverla dalla nascita, quando abbiamo 4 anni abbiamo già deciso le parti essenziali e fino ai 12 anni diamo qualche ritocco e aggiungiamo gli ultimi dettagli. Infine durante la nostra adolescenza aggiorniamo il copione con personaggi più significativi e più vicini alla nostra realtà. Questa storia è il nostro copione di vita.

Cos’è il copione di vita?

Il copione è un piano di vita inconscio basato su decisioni prese ad un qualunque stadio dello sviluppo, che inibiscono la spontaneità e limitano la flessibilità nel risolvere problemi e nel relazionarsi agli altri (Erskine, 1980). Tali decisioni vengono solitamente prese quando la persona è sotto stress e la consapevolezza delle possibili scelte alternative è limitata. Le decisioni di copione emergono nella vita di tutti i giorni sotto forma di convinzioni vincolanti circa l’immagine di sé, degli altri e la qualità della vita.

Esempi di decisioni di copione:

  • Devo fare ciò che vogliono gli altri per non rimanere da solo.
  • A nessuno importa di me. Non dirò più niente e non mi fiderò degli altri.
  • Me la sbrigherò da sola, mi impegnerò molto.
  • Gli altri sono al primo posto e vanno compiaciuti.
  • C’è qualcosa che non va in me. Farò in modo di non espormi così gli altri non mi rifiuteranno.

Il copione è anche un sano e necessario schema di orientamento alla realtà (English, 1988) e un processo di autodefinizione psicologica. Secondo Cornell (1988) il copione “è il processo continuativo di costruzione psicologica della realtà, autodefinente e a volte autolimitante”. La formazione del copione è il processo per cui cerchiamo di dare un senso al nostro ambiente sociale e famigliare e con cui diamo un significato alla nostra vita, ci aiuta inoltre a predire i problemi della nostra vita nella speranza di realizzare i nostri sogni e desideri.

Quali sono le caratteristiche del copione di vita?

Il copione è molto influenzato dai nostri genitori, fin dai primi giorni di vita i genitori ci inviano dei messaggi sulla base dei quali arriveremo a delle conclusioni su noi stessi, sugli altri e sul mondo. Questi messaggi di copione sono sia verbali che non verbali, sia consci che inconsci e costituiscono la struttura di riferimento in risposta alla quale vengono prese le principali decisioni di copione del bambino. (Nel prossimo articolo esaminerò i vari tipi di messaggi di copione e il modo in cui essi sono collegati alla decisione di copione).

Il copione è decisionale, non è determinato unicamente da “forze esterne” (genitori ed ambiente sociale) deriva anche dalle emozioni e dal modo personale che abbiamo di leggere e di rispondere alla realtà nel momento in cui prendiamo la nostra decisione.

Il copione è la migliore strategia che abbiamo trovato da bambini per sopravvivere al mondo. Le decisioni di copione sono quindi prese sulla base delle emozioni e dell’esame di realtà di un bambino che ragiona “dal particolare al generale”. Supponiamo ad esempio che la madre di Tommaso sia incostante nel rispondere alle sue esigenze, certe volte accorre quando lui piange, altre volte lo ignora. Tommaso non ne tra la conclusione di un adulto, ossia “della mamma non ci si può fidare quando è stanca”, ma può dedurre e decidere che “non ci si può fidare degli altri”, oppure “non ci si può fidare delle donne”. Inoltre se Tommaso si sente rifiutato dalla mamma, potrebbe attribuire la colpa a se stesso, decidendosi “c’è qualcosa che non va in me”. I bambini non sanno distinguere tra bisogni e fatti reali, sono piccoli, fisicamente vulnerabili in un mondo popolato da giganti. Da bambini ci troviamo in una posizione di inferiorità e percepiamo i genitori come dotati di un potere totale.

Il copione è fuori dalla nostra consapevolezza, è necessario lavorare in terapia per scoprire il proprio copione.

Come mettiamo in scena il nostro copione nella vita adulta?

Da adulti talvolta riproponiamo le strategie che decidemmo di attuare da bambini. In queste occasioni reagiamo alla realtà come se fosse il mondo che immaginammo nelle nostre prime decisioni, ad esempio “compiacere per essere accettati”, “non esprimersi per non essere sgridati”. Ma perché facciamo così? La ragione primaria è che speriamo ancora di risolvere il tema fondamentale rimasto irrisolto nella nostra infanzia: ottenere amore, attenzioni incondizionate… spesso questo è la fonte della maggior parte dei problemi delle persone.

Abbiamo più probabilità di entrare nel copione quando siamo sotto stress oppure quando la situazione attuale somiglia alla situazione di stress dell’infanzia. Nel linguaggio terapeutico dell’Analisi Transazionale si dice che la situazione attuale funziona come un “elastico” che ci riporta indietro nel tempo ed è come se “mettessimo una maschera su qualcuno”. Ad esempio durante una discussione con il mio capo, sovrappongo il volto di mio padre a quello del mio capo e mi sento smarrita e senza risorse come quando papà mi sgridava.

Come uscire dal copione?

Uscire dal copione significa sentirsi liberi di entrare in contatto con gli altri in modo significativo e saper trovare risposte alle situazioni che viviamo, senza idee o piani preconcetti che condizionano la nostra interpretazione della situazione e ne riducano quindi le nostre scelte comportamentali.

Esempio: Oggi Maria non mi rivolge la parola. Potrei interpretare questa situazione usando una convinzione di copione e pensare che Maria non mi considera perché non sono abbastanza importante per gli altri, oppure potrei usare le mie competenze da adulta e chiedere a Maria come sta oggi e darmi modo di verificare il suo stato d’animo.

Talvolta per riuscire in questo intento è necessario intraprendere un percorso terapeutico che ci aiuti a scoprire le nostre decisioni di copione e che ci aiuti a “tagliare gli elastici” che ci riportano al passato.

Il copione può essere modificato nella vita adulta?

Si, è possibile modificare il nostro copione prendendo nuove decisioni da una posizione adulta, ossia da una nuova prospettiva su di me, gli altri e il mondo che sia legata al qui ed ora. Delineare questo concetto è fondamentale, altrimenti il copione rischia di diventare un “destino fatale”, una profezia che si auto-conferma, invece l’uomo è anche un solutore di problemi, non è solo spinto da bisogni di dipendenza infantile (Allen, 1988).

Le influenze degli eventi della prima infanzia, come vengono compresi e fraintesi dal bambino che cresce, esercitano un potente impatto sia sullo sviluppo sano, sia sulla patologia specifica. Essi influenzano la formazione del carattere, degli atteggiamenti, dei sentimenti, delle relazioni, delle nostre concezioni sul futuro. Tuttavia, la capacita di resistenza dei bambini e dell’uomo in generale, non deve essere sottovalutata. Se cosi facessimo, vorrebbe dire che i bambini possono essere condizionati in modo diretto e prevedibile, invece molti individui superano con successo delle esperienze infantili difficili e perfino tragiche.

Nel prossimo articolo: Come si prende una decisione di copione?

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Sarebbe bello poter scrivere il copione della nostra vita… e la scoperta è che già lo facciamo!

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“La simbiosi è una stretta inter-dipendenza fra due o più persone che si complementano per mantenere sotto controllo, immobolizzati e in qualche misura appagati, i bisogni della parti più immature della personalità” (Bleger, 2010).

Facciamo un esempio, immaginate un professore che sta tenendo una lezione e decide di fare una dimostrazione alla lavagna, chiama una studentessa e le chiede: “Sara vorresti dirci come faresti il passo successivo?”. Sara non dice nulla, rimane immobile. Il silenzio prosegue e gli altri studenti cominciano ad agitarsi e a ridere. Sara comincia a muovere rapidamente il piede e il professore dopo poco dice: “Sembra che tu non sappia la risposta, dovresti esercitarti di più”, poi completa l’esercizio. Sara si rilassa e comincia diligentemente a prendere appunti.

Studentessa e professore sono entrati in simbiosi:

  • Sara ha svalutato la sua capacità di ragionare per trovare una soluzione e con il suo comportamento di silenzio ha portato il professore ad assumersi l’onere di gestire la situazione
  • il professore completando l’esercizio alla lavagna è entrato nel ruolo complementare, ha quindi detto a Sara cosa avrebbe dovuto fare e ha svalutato la possibilità di trovare un modo creativo per aiutarla a risolvere l’esercizio.

Il “problema” della simbiosi è che, una volta che si è creata, i partecipanti si sentono a proprio agio: Sara finalmente si rilassa e il professore evita la frustrazione di esprimere la sua insoddisfazione per lo scambio avvenuto. Ma questo “agio” ha un prezzo: chi è nella simbiosi esclude rispettivamente intere zone delle proprie risorse di persona adulta.

Nei rapporti di tutti i giorni le persone entrano ed escono continuamente dalla simbiosi con gli altri. Talvolta relazioni d’amore stabili si fondano sulla simbiosi stessa. Possiamo fare l’esempio di Bill che è un uomo forte, silenzioso, con la pipa all’angolo della bocca, si esprime a grugniti e non condivide le sue emozioni, poi c’è Betty una donna che ha come missione quella di piacere al marito ed è felice di seguire le sue direttive e di appoggiarsi a lui, spesso le capita di farsi prendere dal panico e di aspettare che Bill torni a casa per risolvere tutto. Gli amici si chiedono come questa coppia possa essere felice, nella realtà all’interno di questo rapporto ciascuno ha bisogno dell’altro: Bill ha bisogno di prendersi cura di qualcuno e Betty ha bisogno di essere accudita. Ciascuno svaluta parte delle proprie capacità: Betty svaluta la sua capacità di risolvere i problemi e Bill la sua capacità di esprimere le sue emozioni. Probabilmente entrambi pensano: “Senza di te non riuscirò a stare in piedi”.

Esistono simbiosi sane?

Assolutamente si. Immaginate che io sia appena uscita da una operazione, mi stanno trasportando su una barella, non so bene dove sono e una infermiera mi tiene la mano e mi dice: “Tra poco starai bene, ora pensa solo a tenere la mia mano”. In quel momento non sono nella posizione di valutare in modo adulto ciò che mi sta capitando e ritorno bambina, lasciando che qualcuno mi accudisca e mi rassicuri. Io e l’infermiera siano in una simbiosi sana, che si differenzia da una simbiosi patologica perché non comporta nessun tipo di svalutazione.

Un altro esempio di simbiosi sana è la dipendenza normale, ossia la simbiosi genitore-bambino. Il bambino non può accedere ancora a delle parti adulte in quanto ancora non si sono sviluppate, quindi anche in questo caso non c’è nessun tipo di svalutazione. Il genitore dovrà aiutare il bambino a sviluppare sempre maggiori risorse personali così da avere sempre meno bisogno di affidarsi a lui. In questo processo ideale, la simbiosi iniziale viene progressivamente svanendo.

Genitore o bambino? Come si sceglie la posizione nella simbiosi?

Per quanto le mamme e i papà possono essere dei bravi genitori, ogni bambino attraversa il processo di sviluppo senza che tutti i bisogni vengano esauditi. E la simbiosi è un tentativo di vedere esauditi dei bisogni legati allo sviluppo che non sono stati soddisfatti durante l’infanzia.

Ogni qual volta entriamo in simbiosi ricreiamo il rapporto esistente nel passato tra noi e un genitore e riproponiamo quella situazione nel tentativo di manipolare l’altro a soddisfare il bisogno che non fu esaudito. Da adulti ricerchiamo quindi i nostri bisogni nella vita di tutti i giorni, ma lo facciamo utilizzando le migliori strategie che abbiamo elaborato da bambini, strategie che oggi non sono adeguate al nostro essere adulti, ossia nella simbiosi svalutiamo le nostre risorse di persona adulta e questo è un processo che è fuori dalla nostra consapevolezza.

Ma allora perché dovremmo scegliere il ruolo del Genitore?

Ci sono delle situazioni in cui il bambino prende una prima decisione inconscia: “I miei genitori sono talmente non all’altezza, che la mia posizione migliore è assumere io stesso il ruolo di genitore”. Può darsi che la mamma di questo bambino temesse di porre fermi limiti al proprio figlio e lo riprendesse dicendo: “Se fai così mi fai soffrire e papà si arrabbierà”. In tal modo si chiede al bambino di assumersi la responsabilità delle emozioni e del benessere dei genitori, ciò può spiegare perché il bambino risponda decidendo che il suo compito nella vita sarà quello di badare ai genitori diventando un piccolo genitore.

Nel corso della nostra vita ci troveremo sempre di fronte a quesiti del tipo: “Come faccio ad affrontare ciò che mi è accaduto?”, possiamo rispondere usando tutto il potere del nostro pensiero, delle nostre emozioni e delle nostre azioni, oppure possiamo svalutarci e sperare che qualcuno simbioticamente venga a salvarci.

 

Nel prossimo articolo spiegherò come ci svalutiamo e quali sono i comportamenti che ci possono aiutare ad individuare quando ci stiamo svalutando.

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Mentre passeggiamo per strada incontriamo un nostro vicino, lo guardiamo e sorridendo diciamo: “Buongiorno!”, il nostro vicino contraccambia il saluto e risponde: “Buongiorno!”.

In questa situazione ci siamo appena scambiati una carezza. Una carezza è definita un'unità di riconoscimento (Stewart – Joines, 1987).

Questi tipi di scambi sono talmente famigliari per noi che non ci facciamo più caso, ma ora immaginiamo la stessa situazione con una variazione, ossia il nostro vicino non contraccambia il nostro saluto, ci passa avanti come se non ci fossimo: che cosa provereste?
Probabilmente vi chiedereste: “Che cosa è successo?”.
In generale è possibile affermare che abbiamo bisogno di carezze e ci sentiamo deprivati se non le otteniamo.

Esistono diversi tipi di carezze? Si, vediamo quali 

  • Verbali Non verbali: ogni tipo di comunicazione è una carezza e la maggior parte dei nostri scambi comporta anche carezze non verbali
  • Positive Negative: una carezza per essere considerata positiva deve essere piacevole per chi la riceve, al contrario una carezza negativa è sentita come spiacevole. Ad ogni modo, qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza
  • Condizionate Incondizionate: una carezza condizionata si riferisce a ciò che una persona fa: “che bel lavoro che hai fatto!”, invece una carezza incondizionata si riferisce a ciò che una persona è: “sono felice che sei qui!”.

Come diamo le nostre carezze?

Alcune persone hanno l’abitudine di dare carezze che cominciano col sembrare positive ma poi danno una “frecciata” negativa finale: “vedo che cominci a capire, più o meno”, queste carezze comunicano qualcosa di positivo ma poi è come se lo annullassero.
Altre persone sono molto generose nel dare carezze positive ma lo fanno in modo non sincero: “che bello il tuo articolo! Quando l’ho letto ho pensato che era molto interessante, molto acuto…”.
Ci sono anche persone che hanno difficoltà a dare carezze positive e non ne danno affatto. Spesso ai genitori capita di dare carezze in modo condizionato: “ti voglio bene se fai il bambino bravo”.
La modalità con cui diamo carezze è strettamente legato al nostro background culturale e famigliare, se ci soffermiamo a pensare alla nostra storia da bambini possiamo trovare dei collegamenti con il nostro modo di dare carezze da adulti.

Ma tutti riusciamo a prendere le carezze che vi vengono date?

Noi tutti abbiamo delle preferenze, alcuni preferiscono ricevere carezze per quello che fanno piuttosto che per quello che sono, alcuni preferiscono essere accarezzati fisicamente, altri solo verbalmente.

La maggior parte di noi preferisce ricevere le carezze che è stato abituato a ricevere. A causa di questa famigliarità possiamo svalutare altri tipi di carezze, oppure può darsi che inconsciamente vorremmo ricevere le carezze che raramente otteniamo ma non siamo capaci di chiederle o di accettarle. Supponiamo che io da bambina abbia sempre desiderato ricevere un abbraccio da mamma e che lei raramente lo abbia fatto, per alleviare la sofferenza di non riceverle, può darsi che io decida di negare il mio bisogno di ricevere degli abbracci affettuosi e può accadere che da adulta io mantenga questa strategia senza esserne affatto consapevole.

Esiste quindi un filtro per le carezze?

Si esiste.
Quando una persona ottiene una carezza non in sintonia con la sua “modalità preferenziale” è probabile che la ignori o la sminuisca. Sentendo una carezza “non in sintonia” potreste dire: “Grazie”, ma nel dirlo potete arricciare il naso e storcere la bocca, oppure potreste mettervi a ridere e dire: “Si va be!”.
Ma perché rifiutiamo alcune carezze? Ci avvaliamo del nostro filtro delle carezze per poter mantenere l’idea che abbiamo di noi stessi e degli altri. Le persone che hanno avuto un’infanzia molto dolorosa possono decidere che non è sicuro accettare nessun tipo di carezza e hanno un filtro così stretto che sfuggono a qualsiasi carezza viene loro offerta. Così facendo mantengono la loro sicurezza interiore ma si privano della possibilità di esperire da adulti le carezze in un modo nuovo e magari gratificante.

Per riprenderci la nostra consapevolezza, spontaneità e intimità secondo Steiner (1987) possiamo cominciare pensando che:

  • possiamo chiedere le carezze: le carezze che otteniamo chiedendo hanno altrettanto valore di quelle che riceviamo senza chiederle!
  • possiamo provare piacere a dare carezze a noi stessi
  • possiamo rifiutare apertamente le carezze che non ci fanno piacere
  • le carezze sono disponibili in quantità illimitata: possiamo dare e ricevere una carezza ogni volta che lo desideriamo!
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Psicoterapia con i bambini

Ogni bambino, come essere umano, è unico e irripetibile: un mondo senza uguali che bisogno prima di tutto conoscere e amare, perché possa riconoscersi ed esprimersi nella sua originalità e nella sua capacità di attaccamento

(Romanini, 2010)

 

Cari genitori,

molto più spesso di quanto siamo disposti a pensare i bambini si sentono soli o cattivi o prigionieri. Hanno disperato bisogno di parlare e di essere ascoltati.

Quali cause possono portare sofferenza ad un bambino?

Le cause possono essere diverse. Può trattarsi di un blocco della crescita a seguito di problemi di salute o di ambiente, possono intervenire traumi, malattie, disagi, può essersi manifestata qualche situazione patologica o possono essersi presentate complicanze nel sistema famigliare, come succede nel caso di separazioni, divorzi, perdite, nuove nascite, traslochi, variazioni del clima abituale (Clarkson & Fish,1988).

I bambini sono estremamente attenti al loro ambiente di vita, a tutto ciò che può cambiarlo e trasformarlo. Sono sensibilissimi al clima emotivo che li circonda, hanno una straordinaria capacità di accogliere lo stato d’animo di chi sta loro intorno, respirano l’atmosfera di casa.

Quando e come inizia la terapia con un bambino?

La terapia con il bambino inizia con la prima vostra chiamata telefonica, perchè da quel momento in avanti il terapeuta che avete scelto inizierà a “pensare al vostro bambino”, a tenerlo in mente, a crearsi un’immagine di lui e a farsi un’idea di lui e di voi basandosi sul tono della vostra voce e sulle parole che avete usato.

Come sarà il primo incontro?

Il primo incontro avverrà tra “grandi” e in questa circostanza il terapeuta prenderà in considerazione il vostro punto di vista, ascolterà le vostre richieste rispetto un eventuale trattamento o incontri di sostegno, accoglierà e comprenderà il disagio e la sofferenza. Soprattutto, sin dal primo incontro il terapeuta vi aiuterà a riconoscere le risorse già presenti nel vostro bambino e, parallelamente, il vostro potenziale di aiuto nei suoi confronti. Vostro figlio non sarà soltanto un “bambino-problema”, ma diventerà un ragazzino da scoprire e da riconoscere nei suoi aspetti interessanti e affascinanti.

Cosa fa un bambino in terapia?

Il bambino in terapia gioca, disegna, parla, inventa storie… è bene ricordare che il gioco è esso stesso una terapia (Winnicott, 1971).

Attraverso il gioco è possibile comprendere in quale modo ciascun bambino interpreta il suo mondo, le sue posizioni esistenziale, le relazioni interne ed esterne. Si potrebbe addirittura dire che il bambino metta in scena il suo copione davanti al terapeuta, per il terapeuta, con il terapeuta.

Se il vostro bambino sta affrontato momenti difficili di confusione o disperazione, il terapeuta potrà intervenire proponendo esperienze correttive attraverso il gioco o la narrazione di storie, offrendo possibili integrazioni e arricchimenti ai messaggi genitoriali. È dunque fondamentale una relazione di fiducia, rispetto e attenzione tra la famiglia, il bambino e il terapeuta.

Quale è il ruolo dei genitori durante la terapia?

Attraverso la terapia vostro figlio trarrà sostegno nel suo sviluppo evolutivo e acquisirà una rassicurante consapevolezza del suo potenziare creativo e una adeguata accettazione dei propri limiti. In questo processo è indispensabile il supporto dei genitori, basato sula convinzione, la determinazione e la fiducia nel vostro bambino e nella terapia.

Il bambino potrà così vivere in terapia i grandi permessi della vita: il permesso di essere un bambino (non un adulto precoce), di essere sano, di crescere, di amare e di essere amato, di pensare, di sperimentare e sperimentarsi, di essere riconosciuto, di avere successo (Romanini, 1999).

 

Tratto da “Lettera ai genitori” (Munari Poda D., A letter to Parents about Child Therapy, in TAJ, Vol. 33, n. 1, 2003).

 

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