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Il copione di vita: la storia della nostra vita scritta da noi stessi!
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaOgnuno di noi ha scritto la storia della propria vita. Cominciamo a scriverla dalla nascita, quando abbiamo 4 anni abbiamo già deciso le parti essenziali e fino ai 12 anni diamo qualche ritocco e aggiungiamo gli ultimi dettagli. Infine durante la nostra adolescenza aggiorniamo il copione con personaggi più significativi e più vicini alla nostra realtà. Questa storia è il nostro copione di vita.
Cos’è il copione di vita?
Il copione è un piano di vita inconscio basato su decisioni prese ad un qualunque stadio dello sviluppo, che inibiscono la spontaneità e limitano la flessibilità nel risolvere problemi e nel relazionarsi agli altri (Erskine, 1980). Tali decisioni vengono solitamente prese quando la persona è sotto stress e la consapevolezza delle possibili scelte alternative è limitata. Le decisioni di copione emergono nella vita di tutti i giorni sotto forma di convinzioni vincolanti circa l’immagine di sé, degli altri e la qualità della vita.
Esempi di decisioni di copione:
- Devo fare ciò che vogliono gli altri per non rimanere da solo.
- A nessuno importa di me. Non dirò più niente e non mi fiderò degli altri.
- Me la sbrigherò da sola, mi impegnerò molto.
- Gli altri sono al primo posto e vanno compiaciuti.
- C’è qualcosa che non va in me. Farò in modo di non espormi così gli altri non mi rifiuteranno.
Il copione è anche un sano e necessario schema di orientamento alla realtà (English, 1988) e un processo di autodefinizione psicologica. Secondo Cornell (1988) il copione “è il processo continuativo di costruzione psicologica della realtà, autodefinente e a volte autolimitante”. La formazione del copione è il processo per cui cerchiamo di dare un senso al nostro ambiente sociale e famigliare e con cui diamo un significato alla nostra vita, ci aiuta inoltre a predire i problemi della nostra vita nella speranza di realizzare i nostri sogni e desideri.
Quali sono le caratteristiche del copione di vita?
Il copione è molto influenzato dai nostri genitori, fin dai primi giorni di vita i genitori ci inviano dei messaggi sulla base dei quali arriveremo a delle conclusioni su noi stessi, sugli altri e sul mondo. Questi messaggi di copione sono sia verbali che non verbali, sia consci che inconsci e costituiscono la struttura di riferimento in risposta alla quale vengono prese le principali decisioni di copione del bambino. (Nel prossimo articolo esaminerò i vari tipi di messaggi di copione e il modo in cui essi sono collegati alla decisione di copione).
Il copione è decisionale, non è determinato unicamente da “forze esterne” (genitori ed ambiente sociale) deriva anche dalle emozioni e dal modo personale che abbiamo di leggere e di rispondere alla realtà nel momento in cui prendiamo la nostra decisione.
Il copione è la migliore strategia che abbiamo trovato da bambini per sopravvivere al mondo. Le decisioni di copione sono quindi prese sulla base delle emozioni e dell’esame di realtà di un bambino che ragiona “dal particolare al generale”. Supponiamo ad esempio che la madre di Tommaso sia incostante nel rispondere alle sue esigenze, certe volte accorre quando lui piange, altre volte lo ignora. Tommaso non ne tra la conclusione di un adulto, ossia “della mamma non ci si può fidare quando è stanca”, ma può dedurre e decidere che “non ci si può fidare degli altri”, oppure “non ci si può fidare delle donne”. Inoltre se Tommaso si sente rifiutato dalla mamma, potrebbe attribuire la colpa a se stesso, decidendosi “c’è qualcosa che non va in me”. I bambini non sanno distinguere tra bisogni e fatti reali, sono piccoli, fisicamente vulnerabili in un mondo popolato da giganti. Da bambini ci troviamo in una posizione di inferiorità e percepiamo i genitori come dotati di un potere totale.
Il copione è fuori dalla nostra consapevolezza, è necessario lavorare in terapia per scoprire il proprio copione.
Come mettiamo in scena il nostro copione nella vita adulta?
Da adulti talvolta riproponiamo le strategie che decidemmo di attuare da bambini. In queste occasioni reagiamo alla realtà come se fosse il mondo che immaginammo nelle nostre prime decisioni, ad esempio “compiacere per essere accettati”, “non esprimersi per non essere sgridati”. Ma perché facciamo così? La ragione primaria è che speriamo ancora di risolvere il tema fondamentale rimasto irrisolto nella nostra infanzia: ottenere amore, attenzioni incondizionate… spesso questo è la fonte della maggior parte dei problemi delle persone.
Abbiamo più probabilità di entrare nel copione quando siamo sotto stress oppure quando la situazione attuale somiglia alla situazione di stress dell’infanzia. Nel linguaggio terapeutico dell’Analisi Transazionale si dice che la situazione attuale funziona come un “elastico” che ci riporta indietro nel tempo ed è come se “mettessimo una maschera su qualcuno”. Ad esempio durante una discussione con il mio capo, sovrappongo il volto di mio padre a quello del mio capo e mi sento smarrita e senza risorse come quando papà mi sgridava.
Come uscire dal copione?
Uscire dal copione significa sentirsi liberi di entrare in contatto con gli altri in modo significativo e saper trovare risposte alle situazioni che viviamo, senza idee o piani preconcetti che condizionano la nostra interpretazione della situazione e ne riducano quindi le nostre scelte comportamentali.
Esempio: Oggi Maria non mi rivolge la parola. Potrei interpretare questa situazione usando una convinzione di copione e pensare che Maria non mi considera perché non sono abbastanza importante per gli altri, oppure potrei usare le mie competenze da adulta e chiedere a Maria come sta oggi e darmi modo di verificare il suo stato d’animo.
Talvolta per riuscire in questo intento è necessario intraprendere un percorso terapeutico che ci aiuti a scoprire le nostre decisioni di copione e che ci aiuti a “tagliare gli elastici” che ci riportano al passato.
Il copione può essere modificato nella vita adulta?
Si, è possibile modificare il nostro copione prendendo nuove decisioni da una posizione adulta, ossia da una nuova prospettiva su di me, gli altri e il mondo che sia legata al qui ed ora. Delineare questo concetto è fondamentale, altrimenti il copione rischia di diventare un “destino fatale”, una profezia che si auto-conferma, invece l’uomo è anche un solutore di problemi, non è solo spinto da bisogni di dipendenza infantile (Allen, 1988).
Le influenze degli eventi della prima infanzia, come vengono compresi e fraintesi dal bambino che cresce, esercitano un potente impatto sia sullo sviluppo sano, sia sulla patologia specifica. Essi influenzano la formazione del carattere, degli atteggiamenti, dei sentimenti, delle relazioni, delle nostre concezioni sul futuro. Tuttavia, la capacita di resistenza dei bambini e dell’uomo in generale, non deve essere sottovalutata. Se cosi facessimo, vorrebbe dire che i bambini possono essere condizionati in modo diretto e prevedibile, invece molti individui superano con successo delle esperienze infantili difficili e perfino tragiche.
Nel prossimo articolo: Come si prende una decisione di copione?
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Sarebbe bello poter scrivere il copione della nostra vita… e la scoperta è che già lo facciamo!
“La simbiosi è una stretta inter-dipendenza fra due o più persone che si complementano per mantenere sotto controllo, immobolizzati e in qualche misura appagati, i bisogni della parti più immature della personalità” (Bleger, 2010).
Facciamo un esempio, immaginate un professore che sta tenendo una lezione e decide di fare una dimostrazione alla lavagna, chiama una studentessa e le chiede: “Sara vorresti dirci come faresti il passo successivo?”. Sara non dice nulla, rimane immobile. Il silenzio prosegue e gli altri studenti cominciano ad agitarsi e a ridere. Sara comincia a muovere rapidamente il piede e il professore dopo poco dice: “Sembra che tu non sappia la risposta, dovresti esercitarti di più”, poi completa l’esercizio. Sara si rilassa e comincia diligentemente a prendere appunti.
Studentessa e professore sono entrati in simbiosi:
- Sara ha svalutato la sua capacità di ragionare per trovare una soluzione e con il suo comportamento di silenzio ha portato il professore ad assumersi l’onere di gestire la situazione
- il professore completando l’esercizio alla lavagna è entrato nel ruolo complementare, ha quindi detto a Sara cosa avrebbe dovuto fare e ha svalutato la possibilità di trovare un modo creativo per aiutarla a risolvere l’esercizio.
Il “problema” della simbiosi è che, una volta che si è creata, i partecipanti si sentono a proprio agio: Sara finalmente si rilassa e il professore evita la frustrazione di esprimere la sua insoddisfazione per lo scambio avvenuto. Ma questo “agio” ha un prezzo: chi è nella simbiosi esclude rispettivamente intere zone delle proprie risorse di persona adulta.
Nei rapporti di tutti i giorni le persone entrano ed escono continuamente dalla simbiosi con gli altri. Talvolta relazioni d’amore stabili si fondano sulla simbiosi stessa. Possiamo fare l’esempio di Bill che è un uomo forte, silenzioso, con la pipa all’angolo della bocca, si esprime a grugniti e non condivide le sue emozioni, poi c’è Betty una donna che ha come missione quella di piacere al marito ed è felice di seguire le sue direttive e di appoggiarsi a lui, spesso le capita di farsi prendere dal panico e di aspettare che Bill torni a casa per risolvere tutto. Gli amici si chiedono come questa coppia possa essere felice, nella realtà all’interno di questo rapporto ciascuno ha bisogno dell’altro: Bill ha bisogno di prendersi cura di qualcuno e Betty ha bisogno di essere accudita. Ciascuno svaluta parte delle proprie capacità: Betty svaluta la sua capacità di risolvere i problemi e Bill la sua capacità di esprimere le sue emozioni. Probabilmente entrambi pensano: “Senza di te non riuscirò a stare in piedi”.
Esistono simbiosi sane?
Assolutamente si. Immaginate che io sia appena uscita da una operazione, mi stanno trasportando su una barella, non so bene dove sono e una infermiera mi tiene la mano e mi dice: “Tra poco starai bene, ora pensa solo a tenere la mia mano”. In quel momento non sono nella posizione di valutare in modo adulto ciò che mi sta capitando e ritorno bambina, lasciando che qualcuno mi accudisca e mi rassicuri. Io e l’infermiera siano in una simbiosi sana, che si differenzia da una simbiosi patologica perché non comporta nessun tipo di svalutazione.
Un altro esempio di simbiosi sana è la dipendenza normale, ossia la simbiosi genitore-bambino. Il bambino non può accedere ancora a delle parti adulte in quanto ancora non si sono sviluppate, quindi anche in questo caso non c’è nessun tipo di svalutazione. Il genitore dovrà aiutare il bambino a sviluppare sempre maggiori risorse personali così da avere sempre meno bisogno di affidarsi a lui. In questo processo ideale, la simbiosi iniziale viene progressivamente svanendo.
Genitore o bambino? Come si sceglie la posizione nella simbiosi?
Per quanto le mamme e i papà possono essere dei bravi genitori, ogni bambino attraversa il processo di sviluppo senza che tutti i bisogni vengano esauditi. E la simbiosi è un tentativo di vedere esauditi dei bisogni legati allo sviluppo che non sono stati soddisfatti durante l’infanzia.
Ogni qual volta entriamo in simbiosi ricreiamo il rapporto esistente nel passato tra noi e un genitore e riproponiamo quella situazione nel tentativo di manipolare l’altro a soddisfare il bisogno che non fu esaudito. Da adulti ricerchiamo quindi i nostri bisogni nella vita di tutti i giorni, ma lo facciamo utilizzando le migliori strategie che abbiamo elaborato da bambini, strategie che oggi non sono adeguate al nostro essere adulti, ossia nella simbiosi svalutiamo le nostre risorse di persona adulta e questo è un processo che è fuori dalla nostra consapevolezza.
Ma allora perché dovremmo scegliere il ruolo del Genitore?
Ci sono delle situazioni in cui il bambino prende una prima decisione inconscia: “I miei genitori sono talmente non all’altezza, che la mia posizione migliore è assumere io stesso il ruolo di genitore”. Può darsi che la mamma di questo bambino temesse di porre fermi limiti al proprio figlio e lo riprendesse dicendo: “Se fai così mi fai soffrire e papà si arrabbierà”. In tal modo si chiede al bambino di assumersi la responsabilità delle emozioni e del benessere dei genitori, ciò può spiegare perché il bambino risponda decidendo che il suo compito nella vita sarà quello di badare ai genitori diventando un piccolo genitore.
Nel corso della nostra vita ci troveremo sempre di fronte a quesiti del tipo: “Come faccio ad affrontare ciò che mi è accaduto?”, possiamo rispondere usando tutto il potere del nostro pensiero, delle nostre emozioni e delle nostre azioni, oppure possiamo svalutarci e sperare che qualcuno simbioticamente venga a salvarci.
Nel prossimo articolo spiegherò come ci svalutiamo e quali sono i comportamenti che ci possono aiutare ad individuare quando ci stiamo svalutando.
Prendere e dare carezze è davvero così facile?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaMentre passeggiamo per strada incontriamo un nostro vicino, lo guardiamo e sorridendo diciamo: “Buongiorno!”, il nostro vicino contraccambia il saluto e risponde: “Buongiorno!”.
In questa situazione ci siamo appena scambiati una carezza. Una carezza è definita un'unità di riconoscimento (Stewart – Joines, 1987).
Questi tipi di scambi sono talmente famigliari per noi che non ci facciamo più caso, ma ora immaginiamo la stessa situazione con una variazione, ossia il nostro vicino non contraccambia il nostro saluto, ci passa avanti come se non ci fossimo: che cosa provereste?
Probabilmente vi chiedereste: “Che cosa è successo?”.
In generale è possibile affermare che abbiamo bisogno di carezze e ci sentiamo deprivati se non le otteniamo.
Esistono diversi tipi di carezze? Si, vediamo quali
- Verbali o Non verbali: ogni tipo di comunicazione è una carezza e la maggior parte dei nostri scambi comporta anche carezze non verbali
- Positive o Negative: una carezza per essere considerata positiva deve essere piacevole per chi la riceve, al contrario una carezza negativa è sentita come spiacevole. Ad ogni modo, qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza
- Condizionate o Incondizionate: una carezza condizionata si riferisce a ciò che una persona fa: “che bel lavoro che hai fatto!”, invece una carezza incondizionata si riferisce a ciò che una persona è: “sono felice che sei qui!”.
Come diamo le nostre carezze?
Alcune persone hanno l’abitudine di dare carezze che cominciano col sembrare positive ma poi danno una “frecciata” negativa finale: “vedo che cominci a capire, più o meno”, queste carezze comunicano qualcosa di positivo ma poi è come se lo annullassero.
Altre persone sono molto generose nel dare carezze positive ma lo fanno in modo non sincero: “che bello il tuo articolo! Quando l’ho letto ho pensato che era molto interessante, molto acuto…”.
Ci sono anche persone che hanno difficoltà a dare carezze positive e non ne danno affatto. Spesso ai genitori capita di dare carezze in modo condizionato: “ti voglio bene se fai il bambino bravo”.
La modalità con cui diamo carezze è strettamente legato al nostro background culturale e famigliare, se ci soffermiamo a pensare alla nostra storia da bambini possiamo trovare dei collegamenti con il nostro modo di dare carezze da adulti.
Ma tutti riusciamo a prendere le carezze che vi vengono date?
Noi tutti abbiamo delle preferenze, alcuni preferiscono ricevere carezze per quello che fanno piuttosto che per quello che sono, alcuni preferiscono essere accarezzati fisicamente, altri solo verbalmente.
La maggior parte di noi preferisce ricevere le carezze che è stato abituato a ricevere. A causa di questa famigliarità possiamo svalutare altri tipi di carezze, oppure può darsi che inconsciamente vorremmo ricevere le carezze che raramente otteniamo ma non siamo capaci di chiederle o di accettarle. Supponiamo che io da bambina abbia sempre desiderato ricevere un abbraccio da mamma e che lei raramente lo abbia fatto, per alleviare la sofferenza di non riceverle, può darsi che io decida di negare il mio bisogno di ricevere degli abbracci affettuosi e può accadere che da adulta io mantenga questa strategia senza esserne affatto consapevole.
Esiste quindi un filtro per le carezze?
Si esiste.
Quando una persona ottiene una carezza non in sintonia con la sua “modalità preferenziale” è probabile che la ignori o la sminuisca. Sentendo una carezza “non in sintonia” potreste dire: “Grazie”, ma nel dirlo potete arricciare il naso e storcere la bocca, oppure potreste mettervi a ridere e dire: “Si va be!”.
Ma perché rifiutiamo alcune carezze? Ci avvaliamo del nostro filtro delle carezze per poter mantenere l’idea che abbiamo di noi stessi e degli altri. Le persone che hanno avuto un’infanzia molto dolorosa possono decidere che non è sicuro accettare nessun tipo di carezza e hanno un filtro così stretto che sfuggono a qualsiasi carezza viene loro offerta. Così facendo mantengono la loro sicurezza interiore ma si privano della possibilità di esperire da adulti le carezze in un modo nuovo e magari gratificante.
Per riprenderci la nostra consapevolezza, spontaneità e intimità secondo Steiner (1987) possiamo cominciare pensando che:
- possiamo chiedere le carezze: le carezze che otteniamo chiedendo hanno altrettanto valore di quelle che riceviamo senza chiederle!
- possiamo provare piacere a dare carezze a noi stessi
- possiamo rifiutare apertamente le carezze che non ci fanno piacere
- le carezze sono disponibili in quantità illimitata: possiamo dare e ricevere una carezza ogni volta che lo desideriamo!
La consulenza psicologica è un intervento breve con obiettivi specifici, rivolto alla promozione del benessere piuttosto che al disagio o ad un disturbo. Rappresenta, quindi, un supporto limitato nel tempo che pone al centro dell’attenzione l’analisi di una situazione problematica attuale, che può essere di natura affettiva, sociale, lavorativo, famigliare…
La consulenza psicologica non è una forma di psicoterapia, da essa infatti differisce per obiettivi, modalità di attuazione, tempi e metodi. L’obiettivo principale della consulenza psicologica è accrescere il benessere e migliorare la qualità della vita della persona, attraverso lo sviluppo dell' autoconsapevolezza, l’accettazione delle emozioni, la crescita e l’incremento delle risorse personali. Il ruolo dello psicologo è quello di facilitare il lavoro della persona in modo da rispettarne i valori, le risorse personali e la capacità di autodeterminazione, al fine di “aiutarla ad aiutarsi”.
In occasione del Mese del Benessere Psicologico parteciperò attivamente anche io con consulenze gratuite che si possono prenotare sul sito.
Adolescenti e sigarette
Scritto da Noemi Di LilloL’adolescenza è una fase della vita caratterizzata da una straordinaria vitalità, una intensa attività esplorativa e da un notevole potenziale di formazione, ma è anche un momento di grande vulnerabilità. I ragazzi possono intraprendere attività rischiose come l’uso di alcol e droghe, guida spericolata, promiscuità sessuale, micro-criminalità e la dipendenza dalle sostanze, fra cui la prima è la nicotina delle sigarette.
Il centro europeo per il monitoraggio della dipendenza dalle droghe (ESPAD) sostiene che l'Italia è il primo paese in Europa per fumatori adolescenti: il 37% degli under 17 fumano sigarette. Nessun adolescente intraprende un’esperienza per farsi del male, la maggior parte dei comportamenti a rischio costituisce un modo con cui il ragazzo cerca di definire la propria identità, dandosi una auto-definizione. Ribellarsi e assumersi rischi vuol dire separarsi in modo netto dal mondo dei genitori e degli adulti in generale. Genitori ed educatori devono aiutare gli adolescenti a trovare “modi sani” per esporsi al rischio senza mettere a repentaglio la propria salute ed evitare rischi ancora più dannosi, ad esempio attività sportive, musicali, artistiche, viaggi, nuove amicizie, attività di volontariato.
Quali strategie possono adottare i genitori contro l’uso di tabacco?
Studi recenti dimostrano che la strategia più efficace per convincere un adolescente ad evitare di fumare il tabacco non è la “strategia del terrore”. Sgridarli o minacciarli può avere l’effetto contrario, cercare di spaventarli fornendo loro informazioni o immagini sugli effetti nocivi per la salute non fa che alimentare la loro convinzione di invincibilità. Anche la repressione è inutile, dire: “fermati!” non serve a fermare un adolescente! La cosa più probabile è che nostro figlio inizi a fumare di nascosto e cominci a pensare che vogliamo negargli la libertà alla quale ha diritto, ossia la capacità di scegliere (Siegel, 2014).
Gli studi dimostrano che funziona la “strategia dell’agire positivo” ossia perseguire un valore positivo ed evitare di bloccare un impulso reprimendolo. Gli adulti dovrebbero concentrarsi su un elemento positivo da coltivare, per esempio informarli del fatto che le multinazionali del tabacco hanno imposto un’aggressiva propaganda di marketing indirizzata principalmente ai soggetti in età evolutiva per invogliarli a fumare e per esempio dire: “non lasciare che qualcuno ti faccia il lavaggio del cervello!” (Siegel, 2014).
I genitori devono prestare attenzione anche ai propri comportamenti a rischio. I ragazzi osservano ed imitano i comportamenti degli adulti significativi, che costituiscono la prima fonte di apprendimento. Non si può essere fumatori, oppure bere alcol prima di mettersi alla guida e poi sensibilizzare un figlio sui pericoli degli stessi. La consapevolezza del rischio che un genitore manifesta nella sua quotidianità è la cornice in cui un figlio inserirà la sua idea di ciò che è rischioso per la sua vita.
Tutti i ragazzi ritengono molto importante il modo in cui i loro genitori considerano i rischi. I genitori devono aiutare i loro figli a valutare i rischi che corrono e ad anticiparne le conseguenze, e infine, trovare un modo perché la voglia di “adrenalina, libertà e autonomia” di un figlio possa esprimersi senza mettere a repentaglio la propria salute. Sport, musica e associazionismo rappresentano contenitori naturali in cui i figli possono esprimere ed espandere, in contesti relativamente sicuri, la propria voglia di avventura.
L’alcol è la sostanza ad azione psicoattiva più accessibile, economica e a più larga diffusione all'interno della nostra società. Una indagine del 2014 dell’ISTAT ha verificato che il 63% dei giovani dagli 11 anni in su consumano alcol. Traducendo in numeri, è possibile affermare che circa 14 milioni di giovanissimi consumano giornalmente bevande alcoliche.
Perché è esplosa l’emergenza alcol negli adolescenti? Cosa è cambiato rispetto alle generazioni precedenti?
In primo luogo possiamo dire che il consumo di alcol è considerato un comportamento normale e non più trasgressivo. Oggi bere è diventato un fenomeno di moda, ricercato, immagine di socialità e successo.
Un altro aspetto è che si beve smodatamente: non c'è più il gusto per il singolo bicchiere, ma la ricerca dello "sballo".
Ed infine, l'alcol è ormai la sostanza di ingresso nel mondo delle droghe, spesso i ragazzi si lasciano andare ad un mix di sostanze psicoattive: alcol, cannabis, ecstasy... e questo avviene più facilmente nei luoghi di aggregazione.
Perché i giovanissimi non devono bere alcol?
Per un adulto accompagnare il pasto con un bicchiere di vino o una birra quando si chiacchiera con gli amici è una piacevole abitudine. Per gli adolescenti è completamente diverso: l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda l'astensione totale da alcol fino ai 16 anni poiché può provocare danni seri al fegato e al cervello.
Dal punto di vista dell’apparato gastroenterico i ragazzi prima dei 16 anni non sono forniti del corredo enzimatico predisposto alla scomposizione e metabolizzazione dell’etanolo contenuto nelle sostanze alcoliche, provocando in tal modo gravi effetti anche sul Sistema Nervoso Centrale (memoria, inibizione, attenzione, astrazione…). Inoltre, l’alcol assunto in occasioni sociali espone i giovani a comportamenti a rischio come la guida pericolosa e comportamenti sessuali violenti e non protetti. Per questa ragione la Legge Italiana vieta la somministrazione di alcolici ai minori di anni 16.
Come aiutare un figlio a scegliere consapevolmente quando e come consumare alcol?
I ragazzi sempre più frequentemente bevono per superare difficoltà relazionali e assumere un ruolo all'interno del gruppo. In questi casi a voi genitori spetta un ruolo chiave: date il buon esempio, i modelli familiari hanno un’enorme importanza nell'indurre abitudini corrette, create un ambiente in cui la presenza dell’alcol è visibile, ma discreta e sempre moderata.
Parlate ai vostri figli fin da quando sono bambini dei danni e dei rischi legati all'alcol. Esordire con questo tipo di discorsi in età adolescenziale, quando tutto è soggetto a critica può ottenere l’effetto opposto e vostro figlio potrebbe rileggere le informazioni apprese solo come una vostra “esagerazione”.
I giovani per natura sono poco inclini al conformismo. E’ bene sfruttare questa naturale predisposizione per osservare e “smontare” insieme a loro la pubblicità sugli alcolici trasmesse dai media. Questo rappresenta anche un ottima occasione per incrementare la loro capacità critica di fronte ai messaggi pubblicitari spesso ingannevoli e fuorvianti.
Distinguete tra il consumo e l'abuso. E’ bene chiarire che il nostro stato psicofisico peggiora sotto l’effetto dell’alcol e una semplice serata con gli amici può diventare un pericolo se dopo aver bevuto prendo il motorino per tornare a casa.
Coinvolgete i vostri ragazzi nell'organizzazione di una festa, questo evento può essere l’occasione per dimostrare che ci si può divertire anche con le sole bevande analcoliche.
Spiegate che il nostro organismo richiede quantità sempre maggiori di alcol per provare le stesse esperienze di piacere, se l’obiettivo del bere è sentirsi più disinvolti e loquaci, questo nel tempo richiederà quantità sempre maggiori e si corre il rischio di diventare dipendenti dall'alcol.
Insegnate ai ragazzi a leggere le etichette, discutete e analizzate con loro le bottiglie e le lattine, questo vi farà sentire “alleati” con vostro figlio e rappresenta un’occasione per evidenziare particolari importanti, come ad esempio la gradazione alcolica.
La scuola può essere una grande alleata per spiegare l’azione neurotossica dell’alcol. Piccoli workshop ideati e condotti dai ragazzi stessi e rivolti ai coetanei possono essere molto efficaci in quanto diventa un esempio di educazione tra pari.
Le emozioni possono essere intelligenti? E quanti tipo di intelligenza esistono?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaNon solo le emozioni possono essere intelligenti, ma esistono anche molteplici tipi di intelligenza!
La teoria delle intelligenze multiple di Gardner (1993) ha sfidato il tradizionale punto di vista dell’intelligenza considerata come una capacità unitaria che può essere misurata attraverso i test. Gardner presentò nove abilità mentali indipendenti per ogni persona:
- Intelligenza linguistica permette agli individui di comunicare e di costruire il significato del mondo attraverso il linguaggio, è la capacità di utilizzare un vocabolario chiaro ed efficace. I poeti esemplificano questa intelligenza nella sua forma matura
- Intelligenza musicale permette alle persone di creare, comunicare e comprendere i significati e le altezze dei suoni, le costruzioni armoniche e contrappuntistiche. I compositori e gli strumentisti mostrano chiaramente questa intelligenza
- Intelligenza logico-matematica permette agli individui di usare e di apprezzare le relazioni astratte, riguarda il ragionamento deduttivo e le catene logiche. Gli scienziati, i matematici e i filosofi contano su questa intelligenza
- Intelligenza spaziale rende possibile alle persone di percepire informazioni visive e spaziali, di trasformare tale informazione e di ricreare immagini tratte dalla memoria. Queste capacità sono necessarie nel lavoro degli architetti, degli scultori e degli ingegneri
- Intelligenza corporeo-cinestetica chi la possiede ha una padronanza del corpo che gli permette di coordinare bene i movimenti. In generale si può ritrovare nei ginnasti e nei ballerini, ma anche nei chirurghi, coreografi e artigiani
- Intelligenza inter-personale è la capacità di comprendere gli altri, le loro esigenze e le paure, di creare situazioni sociali favorevoli e di promuovere modelli sociali e personali vantaggiosi. Si può riscontrare nello specifico nei politici e negli psicologi o in generale in quanti possiedono spiccata empatia e abilità di interazione sociale
- Intelligenza intra-personale è la capacità di comprendere la propria individualità, di saperla inserire nel contesto sociale per ottenere risultati migliori nella vita personale e anche di sapersi immedesimare in personalità diverse dalla propria
- Intelligenza naturalistica consiste nel saper individuare determinati oggetti naturali, classificarli in un ordine preciso e cogliere le relazioni tra di essi. Alcune tribù aborigene mostrano una grande capacità nel sapersi orientare nell'ambiente naturale riconoscendone anche i minimi dettagli
- Intelligenza esistenziale rappresenta la capacità di riflettere consapevolmente sui grandi temi come la natura dell'universo e la coscienza umana.
Dunque le emozioni non solo possono essere intelligenti, ma l’intelligenza può essere emotiva!
Una persona mostra una buona intelligenza emotiva quando è capace di motivare se stesso e di perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, quando è in grado di controllare gli impulsi e di rimandare la gratificazione, quando è capace di essere empatico e di sperare. Nessuno può ancora dire esattamente quanto l’unicità di ogni persona sia dovuta all’intelligenza emotiva (Goleman, 1995).
Salovey (1990) nella sua definizione di intelligenza emotiva include le intelligenze personali di Gardner, estendendo questa abilità a cinque ambiti principali:
- Conoscenza delle proprie emozioni: l’autoconsapevolezza di un sentimento nel momento in cui si presenta
- Controllo delle emozioni: la capacità di controllare le emozioni in modo che siano appropriate alla situazione e la capacità di esprimerle in modo costruttivo
- Motivare se stessi: la capacità di dominare le emozioni per raggiungere un obiettivo è una dote essenziale per concentrare l’attenzione, per trovare motivazione e controllo emozionale
- Riconoscimento delle emozioni altrui: ossia l’empatia, fondamentale nelle relazioni con gli altri
- Gestione delle relazioni: l’arte delle relazioni si basa proprio sulla capacità di dominare e relazionarsi con le emozioni altrui. Ci tengo a sottolineare che tutte le eventuali carenze della nostra intelligenza emozionale possono essere migliorate in qualsiasi momento della nostra vita.
Le persone emotivamente intelligenti sono socialmente equilibrate, espansive e non sono soggette a paure di natura ansiosa. Hanno la capacità di dedicarsi ad altre persone e di assumersi la responsabilità di avere prospettive etiche e morali. In generale queste persone tendono ad essere sicure di sé ed esprimono i propri sentimenti in modo diretto.
Ci tengo a sottolineare che tutte le eventuali carenze della nostra intelligenza emozionale possono essere migliorate in qualsiasi momento della nostra vita!
"Mi sento in colpa…" non è solo un modo di dire piuttosto ricorrente, il senso di colpa è un sentimento, un mix di elementi emotivi e cognitivi, che deriva dalla convinzione, a volte ingiustificata, di poter danneggiare qualcuno o qualcosa.
Il senso di colpa è un sentimento “utile”?
Il senso di colpa è una “risorsa relazionale”, è correlato all’altruismo e all’empatia e ci spinge ad osservare le conseguenze delle nostre azioni, ci permette quindi di prendere coscienza dell'altro, ci costringe ad una messa in discussione e ad un'assunzione di responsabilità sociale.
Quando il senso di colpa diventa negativo?
Il senso di colpa diventa negativo quando si trasforma in comportamenti autodistruttivi e autolimitanti. Può accadere che la colpa non sia necessariamente associata ad una esperienza di vita pratica, ma nasca da un senso di inadeguatezza non compreso, da un senso di inferiorità, può quindi scaturire da scenari inconsci, trasformandosi in un'angoscia legata alla convinzione di essere incapaci di essere apprezzati o di poter danneggiare gli altri.
Quali sono le origini del senso di colpa?
Nella maggior parte dei casi il senso di colpa nasce da un “devo”: “non devo far soffrire gli altri”, “devo essere sempre disponibile”. Ci sentiamo in colpa ogni volta che i nostri pensieri o il nostro comportamento non sono all’altezza dei nostri ideali.
Il senso di colpa detto “residuo” è la reazione emotiva scatenata dai ricordi dell'infanzia. Si riallaccia a frasi del tipo: “devi vergognarti per ciò che hai fatto”. Da bambini assorbiamo non solo alcuni degli ideali dei nostri genitori, ad esempio “devi sempre sforzarti nella vita”, ma assorbiamo anche i loro atteggiamenti correttivi: castigo; rabbia o frustrazione; senso di vergogna; rigetto per l’errore commesso. Da adulti tendiamo a ripetere i loro metodi interiorizzando un nostro genitore “correttivo o punitivo”. Il senso di colpa deriva quindi da norme, divieti ed ordini interiorizzati in maniera rigida e porta a reprimere i propri bisogni ed il proprio progetto di vita.
Esiste anche un senso di colpa “autoimposto” che porta la persona a rimanere immobilizzato dal dolore e dalla vergogna che si autoinfligge come punizione per aver commesso azioni che violano un sistema di valori che egli stesso si è dato. È il senso di colpa di chi per esempio ha imparato che “non deve essere troppo indulgente con se stesso”.
Esistono dei vantaggi psicologici nel sentirsi in colpa?
Spesso si “sceglie” più o meno consapevolmente, il senso di colpa come compromesso di resistenza al cambiamento e di adattamento alle aspettative altrui:
- investendo il proprio tempo nel sentirsi colpevoli, non si ha modo di impegnarsi in un processo di rivalutazione e di cambiamento dei propri valori e comportamenti
- spostando l’attenzione ad un evento accaduto nel passato, si evita di affrontare i rischi che un cambiamento comporterebbe nel presente
- il senso di colpa può essere usato inconsapevolmente come mezzo per recuperare la sicurezza e la protezione, invitando gli altri a prendersi cura di sé
- si può ricevere l'approvazione degli altri nel sentirsi rammaricati del gesto commesso.
Come contrastare i sensi di colpa che ci impediscono di vivere serenamente?
Dopo aver illustrato cosa è il senso di colpa e da dove ha origine, viene spontaneo chiedersi come contrastare questo sentimento tanto complesso e tanto vincolante. Questa forse è tra le domande più stimolanti sul tema, per questo ho deciso di dedicargli un articolo a parte che pubblicherò prossimamente.
Come alleviare il Senso di Colpa: appunti e spunti tra teoria e pratica
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaNel precedente articolo “Mi sento in colpa…” …” abbiamo definito il senso di colpa come un sentimento che deriva dalla convinzione di poter danneggiare qualcosa o qualcuno. Il senso di colpa è una “risorsa relazionale” che ci orienta nelle relazione sociali, tuttavia può diventare negativo se si traduce in comportamenti autodistruttivi. L’origine di questo complesso sentimento deriva dalle norme culturali trasmesse nei primi anni di vita dalla famiglia d’origine e dalla società.
Ma come alleviare il senso di colpa? Per rispondere a questa domanda utilizzerò alcuni concetti base dell’Analisi Transazionale, teoria psicologica sulla quale si basa il mio modo di concepire la personalità.
Ogni personalità può essere rappresentata da diversi “Stati dell’Io” che si esprimono in funzione delle circostanze:
- Stato dell’Io Genitore: mi comporto, penso e sento utilizzando le modalità che ho appreso dalle figure genitoriali. Si suddivide in due stati: Genitore Affettivo e Genitore Normativo
- Stato dell’Io Adulto: mi comporto, penso e sento dando risposte nel qui-ed-ora utilizzando tutte le capacità che ho acquisito da adulto. Il compito di questo Stato dell’Io è di elaborare ed immagazzinare le nuove informazioni sulla base dell'esperienza precedente
- Stato dell’Io Bambino: mi comporto, penso e sento come facevo quando ero bambino. Si suddivide in diversi sottostati: Bambino Spontaneo, Bambino Sottomesso e Bambino Ribelle
Alla luce di questa teoria, possiamo rintracciare il senso di colpa nello Stato dell’Io Genitore. Per una personalità sana ed equilibrata abbiamo bisogno di tutti gli Stati dell’Io, se ad esempio, il nostro Bambino interiore è represso da uno Stato dell’Io Genitore molto severo, l’Adulto interiore avrà difficoltà di adattamento nella vita affettiva o anche in quella professionale, a prescindere dalle sue capacità cognitive ed organizzative.
I quattro passaggi fondamentali per alleviare il senso di colpa
1° passaggio: allearsi con il “Genitore Affettivo”
Utilizziamo il nostro Genitore Affettivo quando siamo davvero in grado di prenderci cura dei nostri bisogni (alimentazione, sonno, svago). Se questa parte è deficitaria, ogni volta che ci sentiamo in colpa per un errore o una mancanza, tenderemo a colpevolizzarci e a sminuirci, anziché prenderci cura di noi stessi nei momenti di difficoltà.
Strategie pratiche: sosteniamo il nostro sistema di valori, regole ed aspettative
Quali sono i valori in cui credo profondamente? Proviamo a tenere saldi dentro di noi questi valori e lasciamo andare quelli indotti dalla società o dalla famiglia in cui “crediamo ma non crediamo davvero”.
2° passaggio: mettere a tacere il “Genitore Normativo”
Il Genitore Normativo ha il compito di proteggere e sviluppare il valore della persona. Se tale funzione è squilibrata, nel momento in cui ci sentiamo in colpa, inizia un’attività assillante che sottolinea ogni errore e sorveglia il nostro dialogo interiore. Attiviamo dunque una parte di noi giudicante e severa che produce un calo della nostra autostima ed un forte senso di colpevolizzazione.
Strategie pratiche: prestiamo attenzione al nostro “senso di onnipotenza”
Il senso di colpa nasce anche da una sopravvalutazione delle nostre capacità o dalla sensazione onnipotente di essere la causa unica dei sentimenti e delle scelte degli altri. Ad esempio pensando “ho fatto piangere mia madre, è tutta colpa mia”, rischiamo di minimizzare l’impatto di altri eventi che possono avere scatenato quel sentimento e rischiamo di svalutare le risorse della persona in questione.
3° passaggio: affidarsi all'“Adulto”
L'Io Adulto ama imparare, capire, elaborare informazioni. È particolarmente prezioso perché è in contatto diretto con la realtà, i bisogni del nostro Bambino e le regole del Genitore interno, rappresenta quindi l’espressione dell’interezza di una persona.
Strategie pratiche: impariamo a valutare in anticipo le conseguenze delle nostre azioni e ricordiamoci che non è possibile cambiare il passato
Il senso di colpa vissuto come auto-denigrazione porta solo alla dissipazione interiore, non cambierà ciò che è avvenuto e non ci aiuterà a renderci migliori. Possiamo pensare al senso di colpa come ad una “scottatura per aver preso troppo sole”: una volta scottati bisogna aver pazienza, ripeterci quanto siamo stati incauti non ci aiuterà a far guarire le nostre bruciature, se vogliamo evitare di bruciarci in futuro, dobbiamo cominciare a pensare a diverse modalità per esporci al sole la prossima volta. Usiamo dunque i nostri errori per pensare a nuove forme di comportamento.
Strategie pratiche: differenziamo tra la “colpa soggettiva” e la “colpa oggettiva”
Valutiamo la differenza tra nostra percezione e la realtà dei fatti. Proviamo a pensare che sia stato un nostro amico a compiere l’azione che ci fa stare così male. Se il senso di colpa è immotivato, probabilmente troveremo molte giustificazioni per il suo operato. Ragionando sui comportamenti altrui, le emozioni non interferiscono con i nostri processi cognitivi e possiamo avere un punto di vista più lucido.
4° passaggio: mettere al sicuro il nostro “Bambino”
Ogni persona porta dentro di sé due bisogni molto importanti ma in contrapposizione tra loro, ossia affermarsi e ricevere approvazione. Crescere e maturare significa dare priorità al bisogno di affermarsi, aprendosi al relativo rischio di non piacere, di non essere accettati.
Strategie pratiche: impariamo ad accettare ciò che di noi ci piace e a tollerare la disapprovazione degli altri
Le nostre azioni possono stimolare delusione negli altri e il senso di colpa spesso nasce dal timore di essere disapprovati. Dimostriamo a noi stessi che possiamo tollerare le reazioni altrui, proviamo a fondare la nostra approvazione su noi stessi. Riconosciamo le azioni commesse e accettiamo le emozioni provate, esse sono importanti, autentiche e possiamo renderle preziose usandole come guida per il futuro.
Strategie pratiche: iniziamo un percorso di psicoterapia
Per affrontare i sensi di colpa è importante individuarne la fonte, liberarsi di fardelli pesanti che spesso non riguardano più quello che siamo o che facciamo oggi, ma solo quello che siamo stati o che abbiamo vissuto. La psicoterapia, inoltre, ci può aiutare a capire cosa stiamo evitando rimanendo focalizzati sul senso di colpa. Ad esempio ci può capitare di sentirci in colpa per un’azione (“Ho una relazione extra-coniugale”; “Mangio continuamente”) ma di continuare a ripeterla nonostante la sofferenza. Il senso di colpa può distrarci dal porci delle domande più dolorose (“Cosa voglio dalla mia relazione?”; “A cosa mi serve mangiare di continuo?”). Lavorare su se stessi è una sorta di ritorno all'autenticità, uno sforzo ad essere connessi con i nostri reali bisogni nel qui ed ora.
Altro...
Lo scorso sabato, come sapete, ho tenuto un seminario dedicato al tema dell’Autostima nell’ambito del Mese del Benessere psicologico. E’ stata un’interessante mattinata ricca di spunti di riflessione e di confronto nati anche dalle domande dei partecipanti. Ecco un piccolo riassunto dei temi approfonditi durante il seminario.
Abbiamo risposto a quattro domande fondamentali.
1- Che cos’è l’autostima?
Innanzitutto una definizione di “autostima”: è l’atteggiamento che ciascuno ha nei confronti di se stesso a livello cognitivo (Cosa penso di me?), a livello emotivo (Cosa provo per me?) e a livello comportamentale (Cosa faccio per me?). I problemi di autostima nascono dalla discrepanza tra il Sé ideale (Come vorrei essere?) e il Sé percepito (Come mi vedo?). Insieme abbiamo tracciato il profilo di una persona con bassa autostima ed una persona con alta autostima anche a partire dalle esperienze di tutti.
2- Cosa influenza quotidianamente la mia autostima?
Per rispondere alla seconda domanda ho illustrato i temi delle valutazioni interne (Cosa dico a me stesso?) e delle valutazioni esterne (Cosa dicono gli altri di me? Che impatto ha su di me?). In particolare ho approfondito e spiegato come le nostre opinioni, i nostri comportamenti e le nostre aspettative, influenzano la nostra autostima creando un ciclo di rinforzo o di indebolimento.
3- Come posso proteggere la mia autostima?
Attenzione alla critica interna! La critica è la voce interiore che ci attacca e ci giudica e le persone con bassa autostima hanno una voce critica molto forte. Durante il seminario abbiamo visto come riconoscere la propria critica e come identificarne i messaggi nascosti.
Attenzione alle distorsioni cognitive! Come leggiamo la realtà? Le distorsioni sono “abitudini” di pensiero con le quali interpretiamo la realtà. Questo argomento ha suscitato particolare interesse, in quanto ognuno dei partecipanti si è riconosciuto in qualcuna delle distorsioni cognitive presentate.
Attenzione ai "devo"! I “devo” stabiliscono le regole su come vivere e sono la base da cui attingiamo i nostri pensieri critici o distorti. Insieme ai partecipanti abbiamo elencato alcuni tra i “devo” più comuni e abbiamo identificato alcune domande che ci possono aiutare ad individuare i nostri “devo”, passo fondamentale per cercare di ridimensionare il senso di obbligo e il senso di colpa.
4- Come posso potenziare la mia autostima?
In conclusione, alcuni tra i concetti fondamentali che supportano l’autostima: la comprensione e la benevolenza che nutriamo per noi stessi, sono l’essenza dell’autostima. Quando ci rivolgiamo a noi con questi sentimenti, tendiamo ad accettare i nostri errori, scegliamo obiettivi raggiungibili, nutriamo aspettative ragionevoli per noi stessi, siamo in grado di essere empatici con noi e gli altri, possiamo diventare assertivi nell’esprimere i nostri bisogni e i nostri desideri.
Ma come riuscire a comprendersi? Come possiamo affermare il nostro valore? Come gestire i propri errori? Che vuol dire essere assertivi? Gli spunti da cui partire per rispondere a queste domande sono molti e meriterebbero di essere approfonditi singolarmente, magari in un altro seminario.
Il dibattito finale mi ha confermato la grande attenzione che viene posta all’autostima in riferimento ai ragazzi, ai figli, sempre più a rischio di scarsa autostima come dimostrano recenti statistiche; attenzione anche al tema dell’assertività sui luoghi di lavoro e al come affrontare, con se stessi, i sensi di colpa.
Ringrazio quanti hanno preso parte alla mattinata e hanno contribuito attivamente alla riuscita dell’incontro. Spunti e domande mi saranno utili per i prossimi seminari. E ringrazio anche il Mese del benessere psicologico che non finisce qui: l’iniziativa SIPAP continua e tutti gli psicologi coinvolti, me inclusa, sono a disposizione per consulenze gratuite.
Mese del benessere psicologico parliamo insieme di autostima
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaIn occasione del Mese del Benessere Psicologico, come vi ho anticipato, parteciperò attivamente anche io con consulenze gratuite e un seminario dedicato al tema dell’autostima, che si terrà sabato 11 ottobre 2014, dalle ore 10:30 – 12:30 nella Sala Multimediale della Chiesa S. Maria delle Grazie, Via della Bufalotta, 674 Roma.
Se ne sente parlare spesso e spesso mi viene chiesto che cosa sia l’autostima e se sia possibile potenziarla per stare meglio con se stessi e con gli altri. La risposta è articolata ed ecco l’idea di organizzare un seminario che rappresenti un’opportunità per approfondire il discorso a 360° e rispondere a queste e altre curiosità.
Se volete saperne di più, potete cliccare qui per andare alla pagina ufficiale e prenotarvi al seminario.
Mi farebbe piacere se partecipaste numerosi!
L’autostima è la valutazione che ogni individuo da a se stesso
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaL’autostima ha un forte impatto sul nostro benessere, influenza il senso di autoefficacia, il tono dell’umore, le relazioni affettive, in generale, influenza le nostre scelte e quindi il successo che raggiungiamo nella vita.
L’autostima viene determinata da informazioni oggettive e soggettive, riferite a tre tipi di sé:
- Sé reale: ossia la valutazione oggettiva delle nostre competenze
- Sé percepito: è la visione soggettiva di quelle abilità, caratteristiche e qualità che sono presente o assenti
- Sé ideale: è l’immagine della persona che desideriamo essere ed è influenzato dalla cultura e dalla società: “vorrei essere….”
I problemi legati all’autostima nascono dalla discrepanza tra sé ideale e sé percepito.
Le persone con alta autostima appaiono sicure, non hanno paura di sbagliare, sono capaci di stabilire buone relazioni con gli altri, hanno la capacità di percepirsi e rapportarsi a sé in modo realistico e positivo, sanno valorizzare le proprie abilità e tengono sotto controllo i propri difetti e le parti del carattere meno amate.
Le persone con bassa autostima spesso hanno difficoltà relazionali, dipendono dal giudizio altrui e hanno un bisogno costante di essere stimati dagli altri, soffrono di ansia, si sentono insicuri. Soprattutto non si sentono di realizzare i propri obiettivi e aspirazioni.
Fortunatamente l’autostima è una caratteristica dinamica e può essere modificata e rafforzata, evolve nel tempo, non si nasce con una alta autostima, ma questa va curata, coltivata e alimentata.
Durante il seminario verranno presentate le caratteristiche principali dell’autostima e le strategie finalizzate a potenziarla, inoltre, avremo modo di fare esercizi pratici ed esempi concreti per capire come la nostra autostima influisce sulla nostra vita.
Le persone che vogliono saperne di più e che sono interessate ad iniziare un percorso di conoscenza su questo tema, possono prenotarsi cliccando qui.